7.5
- Band: KILLING JOKE
- Durata: 01:05:08
- Disponibile dal: 20/11/1990
- Etichetta:
- Noise Records
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Ben saldi in sella alla guida della band, Jaz e Geordie richiamano sotto la loro ala Paul Raven, anche se, rientrato in extremis e non senza polemiche, mollerà di nuovo i Killing Joke prima del tour, tenendo poi le distanze dai due amici/nemici per ben tredici anni. Dietro le pelli, i due convocano invece un batterista non proprio di secondo piano; si tratta di Martin Atkins, storico membro fondatore dei PIL e reduce da poco da un tossicissimo tour con i Ministry: la figura perfetta, nella sua evoluzione musicale, per far trovare ai Kiling Joke la quadra tra matrice post-punk e pulsioni industrial, insomma, e questo disco che sfiora i settanta minuti di durata ne è la riprova perfetta. È l’album che i fan della prima ora aspettavano da tempo, la catarsi di cui i membri stessi della band avevano bisogno, e non a caso – cessati i rapporti con la EG, sussidiaria della Virgin – i quattro si accasano temporaneamente presso la Noise Records, un’etichetta che non richiede presentazioni per i metallari. A questo riguardo, interessante come nel 2007 sarà invece la Candlelight Records (sì, proprio quella degli Emperor) ad acquisire i diritti del disco, che oltre a ristamparlo offrirà ai fan anche un ulteriore doppio album appaiato contenente numerose alternate take dei brani originali, un inedito (purtroppo registrato dal vivo) e un intero live registrato nel 1991 in Francia, dalla setlist interessante e di qualità audio più che accettabile, trattandosi di una registrazione dal pubblico (“Inside Extremities”).
Tornando al disco, si tratta di una riuscita e feroce invettiva nei confronti dei (dis)valori occidentali, verso cui il profeta Coleman si scaglia con una forza visionaria strepitosa, supportato da brani robusti e arrangiati, finalmente, con la giuste dose di rabbia e rozzezza che il tema richiede. “Money Is Not Our God” apre il nuovo corso della band a meraviglia, ponendosi ancora oggi tra i brani più riusciti e iconici dei Killing Joke. La spettrale voce di Jaz che dà il la alla registrazione con il titolo della canzone e il basso pulsante di Raven sono i perfetti viatici di un brano sussultante, intenso e isterico, che alterna momenti molto melodici a un vero proprio mantra anticapitalista. Sicuramente i testi di denuncia e incitamento ad abbandonare i nostri stili di vita non sono mai mancati, nella storia di questa band, ma l’elenco di ciò che possediamo già senza rendercene conto, centro di queste liriche, ha una forza fin qui inedita, e informerà non solo il resto dell’album, ma segnerà una componente politica sempre più esplicita anche nei dischi a venire. “Age Of Greed” è introdotta da un sample pubblicitario che invita a comprare uno stock di carne dal peso epico; colpisce come uno spot del genere nel 1990 potesse trionfare solo sulla tv via cavo americana (l’accento è riconoscibilissimo), ma dopo trent’anni sia ormai tristemente tipico di tutto l’Occidente. Musicalmente è un brano violento e incalzante, in cui la chitarra di Geordie è una vera rasoiata ipnotica, in perfetto contraltare con una sezione ritmica tribale e oscura. “The Beautiful Dead” rallenta un po’ la furia a favore di una cadenza cupa e psichedelica insieme, che anticipa quello che sarà il sound caratteristico del disco seguente. Dopo una intro alienata di contro-motivazione, il brano assume inizialmente la forma di una marcetta in quattro quarti, che però di spiritoso non ha nulla, e il cantato di Jaz – che qui acuisce l’attacco alla civiltà dei consumi – si sposa benissimo alle derive meno cadenzate che informano il resto del brano. “Extremities” è il trionfo della follia su questo disco, l’ideale colonna sonora di una discesa à la Wipeout nell’inferno della vita moderna. I loro punti di forza ci sono tutti: una sezione ritmica roboante, le chitarre circolari, un Coleman in stato di grazia – che si trasforma a meraviglia nella seconda e più intimistica parte del brano, una ben riuscita strizzata d’occhio alla loro fase new wave. E soprattutto si rafforza la presenza dei sample e dei tappeti di tastiere, a cura del neo innesto John Bechdel: il timido tastierista che ha però in qualche modo contribuito a dare forma al suono stesso dell’industrial metal in quegli anni, passando con naturalezza e con il suo sorriso dai Ministry ai Prong, dai Fear Factory ai Killing Joke stessi. “Intravenous” è il classico brano che chiude la prima parte del disco senza colpi di scena, nonostante la band sia evidentemente affezionata al riff portante, tanto da recuperarlo oltre tre lustri dopo in un altro brano (a voi scoprire quale); con una produzione e una linea vocale fedele al disco, riprende comunque in parte le cadenze più melodiche della prima metà degli anni Ottanta, perfette per mettere sul piatto il secondo vinile e farsi assalire dal ritualismo di “Inside The Termite Mound”. Il dialogo tra una linea vocale insinuante e avvolgente e il basso tumultuoso dà lustro a un brano lungo e ipnotico, dove Geordie disegna pennate di chitarra volutamente meno incisive e Atkins fa un passo indietro rispetto al suo stile debordante, con un risultato complessivo decisamente corale. L’atmosfera inquietante che pervade questa lunga traccia esplode nell’intro di “Solitude”, dove Jaz trova un giro di tastiere memorabile e quasi horror, su cui poi monta un brano nuovamente a metà strada tra tribalismo e dissonanze di chitarra che, a occhi chiusi, ci fa respirare zolfo, sudore e nicotina come nei fumetti di Hellblazer. È in generale questa una sensazione che permea tutta la seconda parte di questo disco, decisamente conforme alla ‘sporcizia e alle emozioni represse’ del titolo; anche “North Of The Border” è un universo cupo, una traccia industrial ridotta all’osso, eppure feroce, che ha il suo punto di forza nella sezione ritmica sincopata. Arrivando all’ultimo lato di questo monumentale doppio album, troviamo “Slipstream”, colonna sonora ideale della generazione cyberpunk, con il fondersi di suoni liquidi e rasoiate più sferzanti da parte di tutti i musicisti e un tappeto di tastiere particolarmente efficace. Le conclusive “Kaliyuga” e “Struggle” vengono presentate in diverse ristampe come due tracce separate; la prima è un inquietante intermezzo strumentale, dalle cadenze esoteriche e mediorientali, mentre “Struggle” è coerente al nome e chiude perfettamente, in un mix di violenza e controtempi che rimandano al loro passato più remoto (ma strizzando l’occhio al futuro, come scopriremo negli anni a venire), un disco fatto di rabbia, di voglia di riscatto e di smuovere le coscienze. Tutti elementi esposti con forza, ma con risultati relativi, specie nell’ottica del futuro della band. La permanenza di Atkins nella band si limiterà a questo unico disco, portando anche lui a evitare di imbarcarsi nel tour di supporto del disco. Probabilmente l’entità Killing Joke, o meglio il padre-padrone Coleman, non poteva sostenere un altro ego di questo calibro al suo interno; ma la linfa creativa innestata alla band e ai suoi membri da parte del batterista di Coventry è indubbia, non solo per il fatto che tutti i brani presenti vengano accreditati anche a lui oltre che alla storica coppia Coleman-Walker. Il periodo 1990-1992 lo vede anche formare la superband Pigface, da cui sono passati quasi tutti i Killing Joke stessi oltre a nomi che vanno da Danny Carey a Michael Gira, e soprattutto i Murder Inc: il tentativo dei Killing Joke di mettere in un angolo lo strabordante Jaz Coleman una volta per tutte, purtroppo o per fortuna non baciato dalla fortuna. Walker, Raven, Bechdel e il redivivo Ferguson appaiato alla batteria ad Atkins stesso arruolano Chris Connelly (l’alter ego vocale di Al Jourgensen nei Ministry e Revolting Cocks, per intenderci) per provare a ritrovare serenità e una strada più eteroguidata, ma l’avventura si interrompe dopo un EP e un album più che discreti, sicuramente più ‘malati’ e vicini a quanto Atkins e Connelly avevano già fatto assieme in altre band già citate. Ma questa è un’altra storia, che si intreccia all’ennesimo capitolo esaltante ma foriero di crisi di una band che non conosce la parola noia, nella sua biografia.