7.5
- Band: KILLING JOKE
- Durata: 01:02:05
- Disponibile dal: 03/04/2006
- Etichetta:
- Cooking Vinyl
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Praga, nel nuovo millennio, è diventata la città d’adozione di Geordie, nonché l’occasionale tempio e luogo di meditazione di Coleman, ordinato, nel frattempo, reverendo di una congregazione anglicana. Come non scegliere, quindi, questa città fumosa, oscura e simbolo dell’esoterismo per registrare il nuovo disco? “Hosannas From The Basement Of Hell” conferma la tendenza a dire tutto già dal titolo della band londinese: è un disco che puzza di seminterrati e riti oscuri, di assenzio e afghano consumati ininterrottamente durate le registrazioni, che non a caso porteranno a non pochi scontri, verbali e violenti, tra i membri della band. Saranno anche le ultime note registrate da Raven per la band che l’ha reso famoso: proprio come in un film, la cui sceneggiatura sarebbe spesso risultata improbabile (ma non ci sono limiti nelle vicende dei Killing Joke), grossi cambiamenti erano dietro l’angolo.
Dal punto di vista musicale “Hosannas…” è il disco più cupo registrato dai Killing Joke, almeno dai tempi di “Revelations”, nonché quello dove esplode la componente industrial; rispetto al lato più cyber del genere, ben presente in “Pandemonium”, qui sono l’ossessività e il sottotesto rituale ad emergere, in un intreccio perfetto tra gli Psychic TV e la Chaos Magik, cui non a caso Coleman ha dichiarato più volte di interessarsi, nelle interviste. Aggiungete la registrazione nell’edificio della opportunamente chiamata Faust Records, e l’immagine demoniaca ormai connessa a Coleman (dopo la comparsata nel film “Year Of The Devil”, del regista locale Petr Zelenka), e il gioco è fatto. Il “Basement Of Hell” a cui fa riferimento il titolo, e che compare nel video della titletrack è proprio questo studio seminterrato, dove la band è entrata in contatto con le linee energetiche che percorrono il sottosuolo di Praga e con i propri demoni, e lo mette ben in chiaro fin dall’opener “This Tribal Antidote”. Geordie è in uno stato di grazia e tesse uno dei suoi classici riff circolari, vera matrice dell’intero disco, mentre Coleman, consolidato ormai il timbro rauco, dipinge una linea vocale accattivante e abbastanza melodica. Sul finale Ben Calvert, batterista di passaggio per la sola registrazione del disco e conseguente tour, si concede momenti di libertà prima di muoversi verso tonalità ben più cupe. “I harbour toughts of killing you/pour petrol on you and then on me”: queste le prime parole della seguente titletrack, già citata per il video dalle tonalità infernali, ben esplicitate anche musicalmente e nel testo da confessione psichiatrica; forte la presenza delle tastiere, che vedono l’esordio di Reza Udhin, brillante tastierista che ben si inserirà come quinto membro per parecchi anni – ciò nonostante cacciato a fine 2017 senza molte spiegazioni, anche se pare che tutto sia coinciso con un attacco sbagliato durante un concerto berlinese. Da questo brano in poi, Calvert e Raven costruiscono una trama ritmica forsennata e soffocante, su cui lanciano raggi di vago ottimismo gli occasionali passaggi acustici di Walker, per il resto dedito a comporre alcuni dei suoi passaggi più memorabili alla sei corde. “Invocation” è una lunghissima cavalcata per chitarra, batteria e archi, sorta di “Kashmir” rivista in chiave infernale; le parti per violino sono ovviamente orchestrate da Coleman e registrate a Beirut, e anche Calvert, su un ritmo marziale, mette del suo per aggiungere un’aura mediorientale, grazie a brevi inserti di strumenti a percussione. “Implosion” è la classica chiamata alle armi dei Killing Joke, vicina alle sonorità del disco precedente: Geordie sguinzaglia il suo lato più metal, mentre Coleman gorgheggia su note alti e quasi soavi nel ritornello, prima di tornare a fare il cantore dell’inferno con tanto di distorsore vocale sulla seguente “Majestic”, un caos di suoni destrutturati e tracce sovrapposte… almeno in apparenza, visto che anche questa volta Geordie si è rifiutato di suonare più tracce di chitarra, quindi sta a Udhin offrire sul synth il raddoppio delle sei corde, mentre Calvert si sbizzarrisce sui piatti. “Walking With Gods” è l’apice ritualistico del disco: quasi nove minuti guidati da un solo riff di puro industrial, perfettamente sostenuto da un basso pesante come un bulldozer e da una batteria semplicissima, eppure funzionale, anche nei due stop’n’go, che rafforzano il senso di perdizione complessivo. Coleman inneggia al lato epicureo della vita, per poi abbandonarsi apertamente sulla seguente “The Lightbringer” allo spirito luciferino, in un brano che vede protagonista Raven e le tastiere di Udhin, oltre, naturalmente, all’ennesimo riff di chitarra perfetto. “Judas Goat” è un brano cupo e abrasivo, in cui Walker tira fuori dal cilindro un riff inverso, fuori scala melodica, perfetto per esacerbare il senso di alienazione complessivo. Sul finale è necessario rifiatare, e l’occasione ci viene offerta con un brano arioso, in cui tutti gli strumenti si dilatano e Jaz declama con un vocoder di tribù globali, di amicizia e di tutto ciò che richiede “Gratitude”, guardando al cielo con il suo sguardo folle, ma lasciandoci intendere che i suoi piedi sono ben avviluppati da arti infernali. Che non trascineranno lui, all’inferno, ma qualcuno di molto caro ben presto. Perché magari, su al Grande Nord, qualche ragazzo poco più che adolescente pittato di nero ha scherzato spesso con l’oscuro, ma su questo disco il peso di incantesimi andati male, fuori controllo, è fortissimo e inquietante.