9.0
- Band: KILLING JOKE
- Durata: 00:55:54
- Disponibile dal: 28/07/2003
- Etichetta:
- Zuma Recordings
- Distributore: Columbia
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Sette anni di attesa dall’ultimo disco, l’ennesimo epitaffio già scritto, la prospettiva di una band dallo status mitico sparita definitivamente dai radar. Quante volte, i Killing Joke si sono trovati in questa situazione? Eppure, ancora una volta, arriva il momento del riscatto e del ritorno col botto, un ritorno in cui in questo caso sembrano credere in partenza i membri stessi della band, tanto da scegliere, a ventitre anni di distanza dal primo full-length, di intitolare il nuovo disco, semplicemente, “Killing Joke”: una dichiarazione d’intenti decisamente chiara. Il sound si fa metal e cibernetico assieme, con una ricchezza di groove che non si sentiva da tempo, per quanto virato a un suono gelido: un ossimoro apparentemente inspiegabile che pure fa collocare questo secondo disco omonimo tra i capolavori assoluti della band londinese. La grande sorpresa in formazione è dietro le pelli; Dave Grohl viene inizialmente chiamato al fianco di altri batteristi di eccezione, come John Dolmayan dei System Of A Down – che si dice avesse già registrato quattro demo per l’album – e Danny Carey dei Tool, con l’idea di realizzare un disco quasi ‘collettivo’ con membri di band che molto devono ai Killing Joke stessi. Ma quando Dave si presenta col pieno entusiasmo del fan devoto, Jaz & co. capiscono di aver trovato le mani (e le gambe) perfette per guidare l’intero disco. Anche se, in questo caso, la guida è relativa: come racconterà lo stesso Grohl, curiosamente tutte le partiture di batteria furono registrate alla fine, una sorta di sfida a completare al meglio l’opera dei suoi eroi. Anche al basso si crea, a ben vedere, una situazione curiosa: vi si alternano infatti Youth, Walker e il redivivo Paul Raven, che seguirà la band nel tour seguente al fianco dell’ex compare Ted Parsons (Prong, ma anche Swans e Godflesh) alla batteria. C’è insomma un rinnovato senso di gruppo, che non a caso si declina in notevole freschezza e qualità. Dietro al mixer, infine, troviamo Andy Gill dei Gang Of Four, una band che mosse i primi passi nello stesso magma euforico dei Killing Joke nell’Inghilterra post-punk di fine anni Settanta, con un maggior successo commerciale al tempo, ma anche con una fama meno duratura; fama che tuttavia Gill ha saputo rinverdire come produttore, tirando in questo caso fuori armi che parevano ormai sedate.
Partendo dalla chiamata ritualistica e industriale di “The Death And Resurrection Show”, costruita su una chitarra abrasiva che si trasforma nel corso del brano in un fuoco mistico, in perfetta sintonia con il ritmo tribale di batteria e con la visionarietà di Coleman dietro il microfono, passando al sussurro ermetico e tribale di “Total Invasion”, una canzone che ha un afflato lost in space molto marcato e alienante. Poi, l’assalto frontale a velocità folle di “Asteroid”, non a caso ancora un cavallo di battaglia dal vivo, il momento in cui il pubblico si trasforma in un’orda barbarica a ritmo della batteria, e la riflessione alienata e violenta di “Implant”: un brano in cui la voce di Coleman pare venire da un altro universo, mentre il resto della band viaggia all’unisono su una linea da catena di montaggio – il cui prodotto sembrano essere gli esseri umani, ormai prossimi al totale controllo grazie alle nanotecnologie. “Blood On Your Hands” e “Seeing Red”, pur separate da altre due tracce, sono costruite praticamente sullo stesso riff aperto e circolare, eppure riescono a prendere due strade diverse, mischiando entrambe ferocia e melodia; sembra quasi un voluto gioco con l’ascoltatore, che non puzza però di presa in giro, vista la qualità finale. In mezzo abbiamo il singolo “Loose Cannon”, un brano liquido e pesantemente industriale, ricco di inserti di suoni e rumori alieni, ma forte anche di un ritornello facile ma accattivante; e soprattutto la splendida “You’ll Never Get To Me”: una sorta di deforme ballata quale solo i Killing Joke potevano concepire, un canto di disperazione e solitudine esistenziale, che pure invita al riscatto e alla sopravvivenza nel quotidiano, con il ritorno in piena forza delle chitarre acustiche (evidentemente non sepolte del tutto dopo “Democracy”) e offre una delle prove più espressive dell’ugola di Jaz. “Dark Forces” è un puro brano dell’orrore, sorretto nella prima parte – ma con un paio di reprise da brividi – da quattro accordi basilari di oscure tastiere, su cui il Reverendo Coleman officia, o meglio rantola una messa oscura. Quando il resto della band fa il suo ingresso, è più facile pensare all’incontro dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse più che a un brano musicale, eppure troviamo anche un improvvido ritornello di grande orecchiabilità. Il finale del disco è affidato a “The House That Jack Built”, non a caso il titolo di una filastrocca del mondo anglosassone nota per il suo carattere ossessivo e quasi ipnotico, perfetta rappresentazione del sound della band; qui declinato da Geordie con un riff acido e abrasivo veramente old-school, su cui Grohl sceglie l’ennesima cadenza marziale, semplice ma efficace, mentre è nuovamente Jaz a fare il bello e il cattivo tempo, toccando registri che variano dal sussurro al grido belluino. Con un risultato complessivo che riporta un po’ alla mente il sound di “Pandemonium”, solo più scarno, mentre nel complesso chiude un disco che segnerà a tutti gli effetti la terza (e non ultima) giovinezza della band. Curiosamente “Killing Joke” resterà, almeno fino al 2019, l’unico album mai pubblicato in vinile dalla band; fatto strano per la loro provenienza culturale e temporale, e soprattutto per la chiara fiducia che i membri stessi avevano nell’esito di questo disco, tanto da fissare un lungo tour mondiale partito appena tre giorni dopo l’uscita dell’album.