9.5
- Band: KILLING JOKE
- Durata: 00:33:09
- Disponibile dal: 05/08/1980
- Etichetta:
- E.G. Records
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A volte ci si chiede se davvero esiste il male, percepibile, magari, come qualcosa di realmente palpabile. Correva il 1980, e gli allora sconosciuti Killing Joke avevano da poco sfornato la risposta a questa domanda. Il loro esordio, la loro musica, qualcosa di realmente maligno: suoni da una terra dilaniata, dove scorie radioattive non permettono più all’occhio umano di scrutare il più misero raggio di sole, un mondo distrutto, in ginocchio, dove ogni uomo, anche il più piccolo, lotta costantemente per la sopravvivenza quotidiana. Profetico ed estramamente attuale: l’omonimo disco della band inglese potrebbe tranquillamente essere paragonato ad un oscuro seme del male che, negli anni a venire, germoglierà e darà vita ad altre diverse forme musicali. Lo scherzo che uccide, colpevole di aver innovato e portato all’estremo delle sue possibilità la new-wave d’oltremanica, viene ideato e fondato dalle perverse menti di Jaz Coleman (voce e tastiere), Kevin Walker (chitarra), Paul Ferguson (batteria) e Martin Glover (basso). In particolare, Jaz Coleman, leader storico, riesce a dar vita a otto brani scarni ed essenziali, dai suoni maledettamente industriali e dalle ritmiche estremamente nevrotiche, otto neuroni costituenti la mente depravata di un pazzo, nato con la camicia di forza e, in seguito, ingenuamente lasciato in libertà, libero di poter fare e (soprattutto) dire quel che gli pare. “Killing Joke” è cupo, pessimista, immerso in liquami tossici e costituito da un’ossatura metallica infrangibile: paragoni suggeriti, oltre che dall’abrasività corrosiva delle chitarre, da un uso delle tastiere mai azzardato prima, tanto funzionali quanto lugubri, e, infine, da una cadenza artificiale del basso, complice e accompagnatrice del canto angosciante di Coleman. A completare l’opera liriche profetiche e funeree estrapolate dall’universo in rovina di Coleman. I quattro londinesi riescono a dar vita ad un’intima violenza, figlia di martellanti suoni dance, hard-rock, punk metallico e gothic-rock, stravolti da percussioni tribali che, in futuro, verranno etichettati come la “danza apocalittica” di Trent Reznor. Ascoltare “Killing Joke” è come camminare su di un filo sospeso sopra una gigantesca pozza d’acido e trovarsi a metà strada: non esistono soluzioni, o prosegui fino in fondo o di te non rimarrà niente. Stesso discorso per questa tracklist: nessun compromesso, nessun trucco, o tutta o niente. E così nessun brano prevale sopra l’altro, il catacombale andamento di “Tomorrow’s World”, l’ossessività repressa di “Requiem”, l’attacco androide di “The Wait” (pezzo precursore dell’industrial metal), i tormenti psicologici di “Complications”, la danza industriale di “Bloodsport”… veri e propri macigni scolpiti nella storia del rock. Chiudono il capolavoro la lenta e avanguardistica “$.0.36” e la contrastante “Primitive”, dove il futuro diventa passato e le liriche inquietanti di Coleman disegnano il decadimento della civiltà moderna. Quando il sipario cala la sensazione di smarrimento è forte, come guardare fuori da una finestra ed accorgersi che tutto quello attorno a noi è vuoto e trascurato. Qualsiasi etichetta musicale sarebbe fuori luogo parlando di questo gioiello, non solo capace di rinnovare ed estremizzare la dark-wave ma, allo stesso tempo, gettare le basi per diverse espressioni musicali a loro volta influenti su altre correnti: il crust degli Amebix, il post di Neurosis e Godflesh e l’industrial di Ministry e Nine Inch Nails ne sono solo un esempio. Sono sempre poche le parole spese per “Killing Joke” e per la band stessa. La verità è che, nonostante siano passati trent’anni, questo album e questa band, a discapito gli scarsi riscontri commerciali ottenuti, continuano ad essere il fulcro d’ispirazione per gran parte dei gruppi rock e metal più avanguardistici e cruenti attualmente in circolazione, citati e stimati da ogni musicista che si rispetti. E quindi, che lo scherzo – che uccide – continui.