KILLING JOKE – Outside The Gate

Pubblicato il 19/06/1988 da
voto
4.5
  • Band: KILLING JOKE
  • Durata: 00:38:03
  • Disponibile dal: 27/06/1988
  • Etichetta:
  • E.G. Records

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Posticipato per diversi mesi, il nuovo disco a firma Killing Joke esce nell’estate 1988, in quello che si definisce con romantico ossimoro ‘un silenzio assordante’ da parte della stampa… e della band stessa. “Outside The Gate” nasce in realtà come progetto solista di Coleman, deciso a dare un maggior peso ai sintetizzatori nella sua musica. Walker, che compare tramite il mento e un ciuffo di capelli nella pacchiana copertina, è l’unico altro membro accreditato nelle note di copertina con Jimmy Copley alla batteria e Jeff Scantlebury alle percussioni come sessionmen. Curiosamente, la batteria era stata in origine registrata da Paul Ferguson, che lasciò però lo studio polemicamente, quando scoprì i veri arrangiamenti finali dei brani, ben lontani dalla sua direzione musicale; così come Paul Raven dichiarò senza mezzi termini che Jaz e Geordie erano due segaioli egomaniaci, chiedendo che il suo nome fosse rimosso dai crediti, dopo aver pure lui registrato pressoché tutte le linee di basso. Come vedremo più avanti, almeno per uno dei due musicisti l’addio fu molto lungo e agguerrito. Non si può girare molto intorno allo scarso valore di questo full length. “America” è pop elettronico che punta alla classifica, dove i basilari giri di tastiere però non afferrano al collo, mentre la linea vocale un po’ grottesca permea il solito Coleman col sound di band quali Frankie Goes To Hollywood o Flock Of Seagulls.  “My Love Of This Land” resta sulle sonorità del lato B dell’album precedente: un brano introspettivo retto dall’intreccio di tastiere ariose e chitarre arpeggiate non privo di gusto, ma incapace di decollare. Lo stesso problema della seguente “Stay One Jump Ahead”: funkeggiante ma poco incisiva, con vaghi e dimenticabili tentativi di rap da parte di Coleman. Nonostante la grande ricerca evidentemente messa in capo dai due membri rimasti, i fiati sintetici di “Unto The Ends Of The Earth” sono tra i punti più bassi della loro discografia, e poco fanno per salvare un pezzo banalmente seduto sulle sonorità più scontate del periodo. Le cose non vanno meglio nella seconda parte del disco. Tra afflati esoterici e orchestrazioni balzane, i brani scorrono via senza colpire nel segno, e anzi annoiando. Lo stesso percorso iniziatico che in qualche modo percorre questo lato più “serio” del vinile si perde dietro stratificazioni che non riescono ad emanciparsi dal temibile labirinto mentale di Jaz. “The Calling” si salva in parte per l’emergere della sezione ritmica e la cadenza incalzante che ci guida verso il finale da colonna sonora space/horror, ma troppi elementi sconnessi trovano posto nel resto del brano. La seguente “Obsession” non manca di potenziale: col senno di poi sembra un ponte naturale tra i due periodi di massimo tribalismo della band (prendete a caso un paio di brani da “Fire Dances” e “Hosannas From The Basement Of Hell” per una prova), ma paga nuovamente lo scotto di arrangiamenti fuori luogo. Che esplodono in maniera imbrazzante in “Tiahuanaco”, un brano che può solo contribuire a dimenticare ulteriormente l’omonima civiltà precolombiana a cui è dedicato, o nella conclusiva title track; tra suoni sintetici, vaghi innesti arabeggianti e un cantato eccessivamente pomposo, si mette qui in mostra il peggio di quello che diventerà invece un ambito di ricerca approfondito con esiti eccellenti dal Coleman compositore. Menzione di onore, per onestà intellettuale, merita però il finale per solo pianoforte: struggente ed emozionante, avrebbe sicuramente meritato uno sviluppo diverso, e magari di divenire linea portante di un brano, infine, all’altezza del loro nome. Diverse domande sorgono spontanee all’ascolto, o al riascolto, di questo disco. Innanzitutto, dove sono finite le chitarre di Geordie? Purtroppo, né i suoi riff indimenticabili, né le sue sequenze ipnotiche fanno mai capolino nel disco, sommerse sotto strati di tastiere ridondanti che nulla hanno a che vedere con i fulminei passaggi di synth che sapevano invece accrescere le atmosfere del passato. Coleman, poi, sembra per tutto il disco teso alla ricerca di un cantato new romantic lontano dalle sue corde; e che non a caso resta l’ombra dei pur eccellenti momenti melodici dei due album precedenti, seppellendo la memoria delle sue linee vocali più feroci. Senza troppe sorprese, il flop fu tale che non solo non ci fu una sola recensione positiva, ma la band stessa evitò di promuoverlo con qualsivoglia tour. In fondo, il dibattito sul disco migliore dei Killing Joke resterà per sempre aperto, direttamente collegato a vere e proprie scuole di pensiero che prediligono una delle svariate incarnazioni della band, ma non ci sono dubbi che questo sia l’unico disco veramente brutto a portare la loro firma.

TRACKLIST

  1. America
  2. My Love Of This Land
  3. Stay One Jump Ahead
  4. Unto The Ends Of The Earth
  5. The Calling
  6. Obsession
  7. Tiahuanaco
  8. Outside The Gate
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