7.5
- Band: KING 810
- Durata: 00.59.37
- Disponibile dal: 16/09/2016
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Warner Bros
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
L’EP indipendente “Midwest Monsters” è un pezzo da collezione che ha raggiunto, e mantiene, prezzi ragguardevoli nel mercato dei collezionisti. Il debutto “Memoirs Of A Murderer” è stato chiacchieratissimo e, a parere di chi scrive, è uno dei migliori dell’ultimo decennio di modern metal. Dopo aver fatto rumore ed essersi fatti conoscere al mondo, i King 810 hanno proseguito in maniera a prima vista incerta, annullando parecchie date e pubblicando costantemente materiale (da singole tracce al pioneristico mixtape) abbastanza lontano dal polarizzante debutto. Ascoltando per la prima volta “Le Petite Mort Or A Conversation With God” siamo colti da disfattismo, rattristati per l’occasione mancata dopo un’esperienza sonora ripetitiva e soffocante, parimenti intensa ma ben più densa, opprimente e monolitica di quella di “Memoirs”. Col passare del tempo e l’assimilazione del materiale diventa però tutto più chiaro. La band di David Gunn è tutt’altro che confusa, ha infatti una visione chiarissima, che però si discosta totalmente dall’universo musicale a cui siamo abituati. “Le Petite Mort” è il manifesto di una band lontana dalle direttive di mercato, che impongono un serrato e regolare ciclo di album e tour, che a quello che vien definito il primo album vero e proprio dopo la ‘presentazione’ di “Memoirs” vuole discostarsi velocemente dalla definizione di ‘metal’ o qualsiasi restringente sottogenere di riferimento. Come prima cosa i King si divertono a zittire chi, dopo il mixtape e svariati singoli d’atmosfera, chiedeva violenza fisica: lo fanno con l’apertura pesantissima di “Heavy Lies The Crown” (quasi un pezzo degli Emmure) e la dedica esplicita dello spaventoso ruggito di “Alpha and Omega”. Il seguito prosegue, fino a metà tracklist, sulla stessa strada: mid-tempo heavy e sfaccettati dove Gunn scandisce attentamente ogni sillaba in uno stile tra lo spoken word e il rap, affiancandosi all’hip hop per le tematiche crude, escludendo i giochi di metrica ma dedicandosi ad auto-affermazione, empowering e story telling, andando di fatto a prendere distanza dai paragoni affibbiati all’ascolto di “Memoirs”. A metà disco “Le Petite Mort” traccia una linea, a separare lo yin e lo yang e far partire la sperimentazione. Il crossover di “War Time” e la tragica ballata “Black Swan” rappresentano ovviamente i punti di colore diverso nei due lati opposti della figura. Da qui in poi i King sfidano se stessi, perché è chiaro che non sono interessati al compiacimento di nessuno, toccando lidi inesplorati e giocando col jazz (“Life’s Not Enough”), il western (“I Ain’t Goin Back Again”) e, incredibilmente, esibendosi in quella che si può definire una canzone d’amore (“Me And Maxine”). Il tono è quasi sempre drammatico e amaro, gli stili sono molto eterogenei, ma è palese che la band si sia attenuta ancora una volta ad un disegno preciso, costruendo un album molto strutturato ed incredibilmente diverso. Non tutto è perfetto, lo dobbiamo dire. Avendo strappato il diritto alla sperimentazione dopo una presentazione incisa sulla pietra, dopo aver distrutto la figura di scarto nu-metal appiccicatagli addosso da saccenti che giudicano l’estetica, il salto alla performance artistica di “A Conversation With God”, in misura minore di “The Trauma Model” e, soprattutto, degli otto minuti di “La Petite Mort” va a trascendere la forma canzone per abbracciare recitazione, poesia e teatralità rendendo l’ascolto delle tracce in sequenza molto difficoltoso, facendo addirittura rimpiangere i flussi di coscienza di “Anatomy”. Per questo motivo il disco è nell’insieme inferiore al precedente ma, allo stesso tempo, i King 810 centrano un obiettivo più grande, ottenendo profondità, credibilità, legittimazione e rispetto artistico, delineando i tratti di una band unica e destinata a crescere ulteriormente. Mai più sottovalutati.