
8.0
- Band: KING DIAMOND
- Durata: 00:37:42
- Disponibile dal: 14/03/1986
- Etichetta:
- Roadrunner Records
Spotify:
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Se diamo retta a chi dice che ‘chiusa una porta si apre un portone’, possiamo dire, almeno nell’ambito metal, che questo detto ha le sue fondamenta, specialmente nel caso dell’inizio di carriera solista per uno dei cantanti più iconici e decantati della nostra amata musica. È infatti il 1985 l’anno in cui i Mercyful Fate si dividono dopo l’incredibile “Don’t Break The Oath”, lasciando orfani King Diamond, Michael Denner e Timi Hansen, dopo che Hank Shermann aveva dichiarato di volersi spostare su lidi lontani dalle tematiche oscure e sataniche cavallo di battaglia della leggendaria formazione danese. Al trio sopracitato restavano poche scelte: se si voleva andare avanti, era necessario sfruttare il successo ottenuto percorrendo la strada del demonio e la notorietà guadagnata dai membri, quindi tanto valeva provare a fare qualcosa utilizzando proprio il nome del Re Diamante.
Reclutato un promettente batterista proveniente dai Geisha, tale Mikkey Dee che qualche anno dopo diventerà la cassa di Lemmy Kilmister, a King e soci ci vuol poco a farsi sponsorizzare dalla Roadrunner Records, che aveva intuito il potenziale della band di nuova nascita e voleva approfondire quanto fatto con i Mercyful Fate fino a quel momento. Così, dopo un assaggio dato ai fan nel Natale 1985 con lo scherzoso EP “No Presents For Christmas”, arriva il momento di fare sul serio con “Fatal Portrait”, primo vero volo nel cielo della nuova band denominata, appunto, King Diamond.
Un disco che, forse, non ha mai raggiunto i consensi del successivo “Abigail”, il vero capolavoro del Re, ma che riascoltato oggi contiene già quella scintilla che avrebbe poi portato la band ad assurgere a quel mix di teatro, grand guignol e heavy metal che ha lanciato una carriera ormai quarantennale. L’effetto iconico, ancora molto vicino alla band precedente, si nota subito dalla copertina che raffigura, appunto un ritratto di donna che sta lentamente venendo divorato dalle fiamme. Si tratta anche dell’unico altro disco del Re – insieme a “The Spider’s Lullabye” del 1995 – a non essere un concept album dall’inizio alla fine: solamente il Lato A (e l’ultimo pezzo del Lato B) racconta una storia di spettri e maledizioni, mentre il Lato B contiene alcuni episodi singoli che mettono comunque in mostra le doti di una formazione che avrebbe poi sfornato uno dei più grandi capolavori dell’heavy metal.
Altra particolarità: nonostante tutti i pezzi di chitarra fossero già scritti, solo dopo due settimane di prove in sala venne trovata la giusta persona capace di scrivere degli assoli ideali: l’istrionico Anders Lars-Erik Allhage, al secolo Andy LaRocque. Il risultato di questo cambio all’ultimo minuto è che “Fatal Portrait” è l’unico album di King Diamond dove il suo compagno di musica non è mai citato nelle note relative alla scrittura dei pezzi. Ma, venendo ai brani, subito si nota la carica ironica e malefica che aveva da sempre caratterizzato la band principale del Re Diamante, a partire da “The Candle”, dove si inizia a intravedere la vena istrionica del combo: una oscura intro di organo che culmina con una esplosione heavy dove gli ululati di Molly, lo spirito di bambina imprigionato nella candela, si fondono con la maestria delle chitarre impegnate nella composizione dei riff. E che dire degli arabeschi che caratterizzano “The Jonah”, mentre continua la storia della maledizione dovuta alla follia di Mrs. Jane? Assoli e un lavoro di batteria certosino si uniscono mentre i cori del Re rendono tutto più sulfureo e carico di zolfo, mano a mano che la storia avanza attraverso “The Portrait”, con la sua carica puramente heavy, per chiudersi con la spettacolare “Dressed In White”.
Il germe di quello che sarebbe venuto dopo, quindi, c’era già, anche se la seconda metà del disco racchiude pezzi che sono poi entrati nelle setlist del Re Diamante quasi in pianta stabile, come la spettacolare “Halloween” e l’ingiustamente dimenticata “Charon”, decisamente gustosa nel suo incedere a metà fra la cavalcata più NWOBHM e il tocco quasi neoclassico di LaRocque. “Lurking in the Dark” e “Haunted”, che chiude la storia della piccola Molly che torna a vendicarsi della follia di sua madre Jane, sono solo l’antipasto di quello che arriverà poi nel 1987: una perfezione compositiva ai limiti del chirurgico, un suono potente e secco seppur pieno di riverberi, e una abilità nell’orchestrare i cori che pochi altri artisti hanno avuto nel corso degli anni.
Se il falsetto del Re è ancora per molti un ostacolo, anche al giorno d’oggi, non possiamo che invitare costoro a dare un’altra possibilità a questo disco e lasciarsi coinvolgere dalle sue atmosfere maligne ed esagerate, al limite del grottesco: “Fatal Portrait” non sarà probabilmente al livello di “Abigail” o di “Them”, ma resta una pietra miliare incastonata in un percorso che ha decisamente visto pochi punti bassi e moltissimi alti. Un lavoro da recuperare assolutamente per tutti i neofiti del metal, mentre si aspettano i nuovi falsetti satanici incisi su disco.