8.5
- Band: KISS
- Durata: 01:36:18
- Disponibile dal: 22/07/2003
- Etichetta:
- Sanctuary Records
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Sono passati ben cinque anni dall’uscita di Psycho Circus, l’album che sancì la reunion dopo diciannove anni della formazione originale. Dopo aver suonato ovunque per promuovere il platter, i nostri decisero di porre fine alla loro esistenza, inaugurando il Farewell Tour. Ma il successo del tour è stato tale che la band capitanata da Gene “Mr.4000 tacche” Simmons e Paul Stanley è ancora qui tra noi pronta a stupirci per l’ennesima volta. Il quarto capitolo live non tradisce le attese di ogni fan che si rispetti, dato che i Kiss hanno deciso di fare un concerto in Australia niente meno che con la Melbourne Symphony Orchestra! Il risultato si può riassumere in una breve definizione: dove i Metallica hanno miseramente fallito, i Kiss hanno sfornato un ottimo album, in cui l’orchestra non snatura l’essenza rock’n’roll delle song, anzi le valorizza maggiormente. Purtroppo, il glorioso Ace Frehley ha gettato la spugna, ed è stato sostituito degnamente da Tommy Thayer (già chitarrista dei Black’n’Blue). Le prime sei song del cd sono suonate senza l’ausilio dell’orchestra, ma risultano dannatamente coinvolgenti. L’apertura del disco è affidata alle storiche “Deuce” e “Strutter”, tratto dal primo seminale cd della band, che mandano in visibilio i fan giunti a Melbourne per l’occasione. Si prosegue con la divertente “Let Me Go Rock’n’Roll”, per poi passare alla più che esplicita “Lick It Up”, dotata di un ritornello semplice semplice che, dopo il primo ascolto, non vi lascerà più (inoltre consiglio di guardare l’esilarante clip della song, a mio parere uno dei video più tamarri del secolo). L’ammiccante “Calling Dr.Love” fa da preludio a “Psycho Circus”, song dotata di un ottimo tiro che non sfigura affatto con i classici del passato della band statunitense. Il bello però deve ancora arrivare, dato che parte dell’orchestra accompagna la dolcissima e malinconica “Beth”, cantata dalla voce emozionante di Peter Criss, seguita a ruota dalla ballad strappalacrime “Forever” (scritta da Paul Stanley e Micheal Bolton), e la drammatica “Goin’ Blind” fa scendere qualche lacrimuccia sul viso, interpretata dalla roca voce di Gene Simmons. La soft “Sure Know Something” risulta decisamente migliore della versione presente sull’orripilante Dynasty, spogliandosi dei suoni finti e acquisendo maggior corpo con l’orchestra. “Shandi” (canzone che aprì le porte del successo ai Kiss nel 1980 in Australia) conclude la prima parte del concerto e vi garantisco che la seconda parte sarà pura dinamite! L’orchestra entra sul palco al completo, e “Detroit Rock City” apre le danze alla grande, sposandosi alla perfezione con il sound degli strumenti classici, diventando a mio parere la miglior canzone di questo live. Segue la contagiosa “King Of The Night Time World” tratta dal sempreverde “Destroyer”, seguita dalla scanzonata “Do You Love Me”, dove la partecipazione del pubblico raggiunge vette altissime. Man mano che si procede nell’ascolto la tensione sale e, dopo la divertente “Shout It Out Loud”, ecco la mitica “God Of Thunder”, dotata di un riff pesante, che si sposa alla perfezione con la voce di Gene che manda in estasi il pubblico mentre vomita sangue. La terremotante “Love Gun” (unico estratto dall’album omonimo) non risente affatto dell’età, ricordando alle rock’n’roll band di oggi che senza una band come i Kiss non sarebbero nemmeno esistite. Si arriva alla singhiozzante “Black Diamond”, cantata alla grande dalla voce graffiante di Peter, seguita dall’atipica “Great Expectations”, per poi passare alla celeberrima “I Was Made For Lovin’You” (fortunatamente più rock oriented della versione presente su disco), sino ad arrivare alla conclusione con la party song per eccellenza, ossia “Rock’n’Roll All Nite” che chiude questo doppio live alla grande, condita dai copiosi e meritati applausi del pubblico presente. Le uniche due pecche di questo live sono la totale esclusione delle song dal bistrattato “Music From The Elder”, dato che sarebbero state certamente arricchite dall’apporto orchestrale, e brani come la pomposa “Under The Rose”, la solenne “Just A Boy”, e la melodrammatica “Odissey” avrebbero fatto un’ottima figura, e gli abbondanti ritocchi effettuati in studio (ma non si può pretendere, dopo una carriera trentennale, che i nostri siano ancora in forma smagliante). Mi vien da sorridere nell’ascoltare spesso critiche aspre nei loro confronti, ma se non fossero esistiti, il rock moderno (inclusi vari sottogeneri del metal) non sarebbe nemmeno esistito!