6.5
- Band: KVELGEYST
- Durata: 00:38:21
- Disponibile dal: 24/11/2023
- Etichetta:
- Eisenwald Tonschmiede
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Del mini-esercito di gruppi usciti dall’Helvetic Underground Committee i Kvelgeyst non sono fra i più semplici da interpretare. Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, si tratta di una sorta di famiglia di band svizzere, quasi tutte dedite a varie forme di black metal e accomunate da musicisti che prendono parte a più progetti. Come abbiamo avuto modo di ricordare in sede di recensione degli Ophanim – in uscita in questi stessi giorni – uno degli elementi più attivi del comitato è sicuramente Meister T., presente qui, negli appena citati Ophanim, ma soprattutto dietro anche ai più celebrati Ungfell.
Il progetto Kvelgeyst, fotografato al secondo disco, rappresenta sicuramente un lato più sperimentale della proposta artistica di Meister e soci, fin dal concept, visto che si occupa di alchimia e di un racconto legato alla tematica del sacrificio rituale, della crescita spirituale e dell’unione mistica, con evidenti rimandi letterari a narrazioni faustiane e veterotestamentarie.
Musicalmente siamo di fronte ad un black metal che poi tanto black non è, almeno strutturalmente: interludi atmosferici a parte – come il lungo ed oscuro intermezzo di “Stufe III” – il suono dei Kvelgeyst è rozzo, sghembo, tanto urlato quanto declamato, alla maniera di certi Finntroll o dei Die Apokalyptischen Reiter, anche se questi sono realmente paragoni più che modelli diretti.
L’impressione generale dei sei movimenti presenti in “Blut, Milch And Thränen” è che si sia di fronte ad una concezione della musica estrema molto libera e lo confermano le note di sassofono presenti in “Stufe I” e “Stufe II”, se messe a diretto confronto con il black’n’roll di “Stufe IV”, forse il pezzo più vicino a certi Horna o Taake. Ai Kvelgeyst interessa proporre una miscela originale e possiamo dire che in questo riescano piuttosto bene; gli ostacoli, se mai, giungono da alcuni aspetti difficili, per quanto ci riguarda, da assimilare in fretta: la prolissità di alcuni passaggi, visto che l’opener arriva quasi a dieci minuti e non si scende praticamente mai sotto ai cinque, durate importanti per una proposta non sempre apprezzabile al primo ascolto.
Infine, ci pesa un po’ la ‘germanicità’ implicita del prodotto, tutto in tedesco, spesso declamato più che cantato, con passaggi in cui la voce di Meister è parte di un vero dialogo in cui i cori a più voci diventano vere e proprie risposte, come in una pièce teatrale. E’ questo un approccio piuttosto diffuso nelle band dell’area germanica che talvolta, se non controbilanciato da uno spiccato senso dell’humour come quello dei citati Reiter, diventa forse un po’ troppo solenne e appesantisce il risultato finale. Interessante, a nostro avviso, ma non compiuto.