7.0
- Band: KYLESA
- Durata: 00:38:58
- Disponibile dal: 24/05/2013
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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E’ sempre bello e stimolante confrontarsi con la musica dei Kylesa, in quanto i ragazzi di Savannah riescono sempre a cambiare le carte in tavola e a non essere mai ripetitivi. Dopo un lavoro superbo quale “Spiral Shadow” era lecito attendersi un seguito che più o meno seguisse le stesse coordinate. E invece no. Come sempre, la band ha preso il lavoro precedente e ne ha fatto la propria base di partenza per andare poi ad inserire nuove variabili nel proprio sound. Così “Ultraviolet” – pur conservando molti dei cliché tipici del combo – sposta ulteriormente l’asticella e riesce a non privarci del piacere della scoperta. Diciamolo subito: il nuovo lavoro non è all’altezza dei propri due predecessori, ma nonostante questo si dimostra un platter maturo ed intrigante. Sin dall’iniziale “Exhale” ci rendiamo conto che i Kylesa vogliono mantenere una forte e radicata componente psych sludge, che rischia però di essere squarciata da spinte tribali e da un’effettistica mai così presente e mai così vicina alla scena elettronica evoluta. La successiva “Unspoken” gioca molto anch’essa con gli effetti: le chitarre di Philip Cope e di Laura Pleasants giocano con suoni flebili e distanti, mentre un grandissimo lavoro lo compie il sempre più importante Carl McGinley, che ammanta il tutto con i suoi campionamenti molto eleganti. Il brano è carico di pathos ed è una delle cose migliori uscite dalla penna di Cope negli ultimi anni. “Grounded” invece è un hard stoner settantiano stravolto dall’influsso heavy psych tipico della band, dentro al quale si sentono anche lontanissimi echo di Deep Purple! “What Does It Take” è un mid upper tempo semplice ed efficace, ancora una volta baciato dagli influssi ottantiani dati da McGinley. Molto bene anche “Low Tide”, brano dove viene compiutamente a galla l’amore dei Nostri verso la dark wave e dove gli arrangiamenti rimandano ai migliori Cure e la conclusiva “Drifting”, intensa, sognate e liquida. Non ci sono particolarmente piaciute “Vulture’s Landing” e “Steady Breakdown”, la prima davvero troppo molle e non molto ispirata, mentre la seconda fallisce nel tentativo di innestare la psichedelia sopra un riffing thrash memore di Metallica e Megadeth. Va altresì detto che perlomeno tutti i brani riescono a mostrare spunti interessanti e personali, che non sempre però vengono sviluppati in maniera compiuta. D’altronde fa parte del gioco: non tutte le ciambelle possono uscire con il buco. Nota finale per la meravigliosa produzione curata da Philip Cope, sporca e lo-fi come non mai. Nel complesso comunque “Ultraviolet” rimane un buon album, con qualche brano eccezionale ed altri magari rivedibili, ma ci riconsegna una band curiosa ed imprevedibile, che magari deluderà i fan della prima ora ma che continua a seguire una propria idea musicale senza voltarsi indietro ed anzi ampliandola ogni volta di elementi nuovi.