10.0
- Band: KYUSS
- Durata: 00:50:55
- Disponibile dal: 30/06/1992
- Etichetta:
- Dali Records
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Se il Sole potesse parlare, direbbe sicuramente che il suo gruppo preferito sono i Kyuss. Nel 1992, esattamente vent’anni fa, quando il rock alternativo scalava le classifiche di tutto il mondo, formando quella scena poi nota come il movimento grunge, e con il metal avviatosi verso la fossa del decennio in questione, accadde che dal deserto della California una strana tempesta di sabbia provocata da dei mastodontici amplificatori introdusse al mondo una musica dalle nuove sonorità: pesanti, psichedeliche, figlie legittime dei Seventies ma più sporche e roboanti. Al contrario del giorno d’oggi, dove recuperare vecchie sonorità viene spacciato per una originale reinvenzione, “Blues For The Red Sun” ebbe il pregio di mettere subito in chiaro quanto il proprio suono non intendesse diventare una semplice manovra revivalistica, unendo alla pesantezza del rock, moltiplicata per un milione, un nuovo volto contorto e ipnotizzante, quasi come il vedere un miraggio. Fu la nascita dello stoner rock, inventato da quattro loschi individui sudati e sporchi, che rispondono ai nomi di Josh Homme, chitarra, Nick Oliveri, basso, Brant Bjork alla batteria e, infine, John Garcia alla voce. E’ con un giro di chitarra lento e timoroso, accompagnato da un sonaglio che tanto ricorda il vento secco del deserto, che si apre questo storico disco, in decollo dopo pochi secondi grazie al muro sonoro di una delle sezioni ritmiche più schiaccianti ed efficaci di sempre, amplificata da un suono talmente basso da lacerare i timpani e accompagnata dalla voce irruente di un John Garcia disegnato apposta per questo tipo di ruolo. Il preludio al disastro, il suono della faglia di Sant’Andrea quando si sveglia dal sonno, l’arsura incolmabile sotto il Sole in mezzo al deserto: tutto questo si concretizza con il pezzo più diretto del lotto, quella “Green Machine” diventata una delle hit della formazione di Palm Desert, formata semplicemente da un paio di giri di chitarra che hanno la potenza distruttiva di quattro bombe atomiche. Proprio da “Green Machine” prenderanno spunto molte formazioni a venire, catturate dai migliaia di watt vomitati dai roventi amplificatori della coppia Homme/Oliveri, un marchio di fabbrica che fa scuola tutt’oggi – dopo ben vent’anni dalla pubblicazione – e che rimane praticamente ineguagliato. Tanti sono i volti di questa allucinazione collettiva: “Thong Song”, con il suo blues scandito da badilate roventi di riff pachidermici; “Freedom Run”, un ipnotico viaggio iniziale sotto effetto di stupefacenti in un incubo ad occhi aperti, culminante, infine, in una festa del riff da far invidia anche ai Black Sabbath; per arrivare poi a quella triste “Writhe”, il pezzo più cupo e malinconico dell’intera opera. Genio e sregolatezza si fondono nell’unione d’intenti dei quattro, ispiratissimi per tutto il minutaggio e trionfanti nell’arduo compito di dare nuova linfa vitale al rock puro e duro, adoperando soluzioni che negli anni a venire entreranno sempre più nel DNA di band associabili anche al panorama prettamente metal. Nel finale, dopo l’apparente pace di “Capsized”, dove fanno il loro ingresso persino le chitarre acustiche, la parte più brutale e alienante del disco si manifesta con “Allen’s Wrench” prima e con “Mondo Generator” dopo, uno dei pezzi più storti, drogati e allucinati dei Kyuss, composto da quel Nick Oliveri che sceglierà proprio questo nome come moniker per la sua band, creata una volta uscito dai Kyuss. “Yeah”, una strafottente affermazione di successo, conclude uno dei lavori più importanti dei ’90 e del rock pesante in generale, ponendosi a metà strada tra quest ultimo e il più giovane movimento metal, facendo prendere una boccata d’aria fresca ad entrambi – se di aria fresca è davvero possibile parlare interpellando “Blues For The Red Sun” – e dando il via ad una lenta estremizzazione di queste basi musicali, prima con Fu Manchu e Monster Magnet, più sobri e legati alle tradizioni, e poi con i ben più acidi Electric Wizard, Acid King, Bongzilla e compagnia cantante. L’unicità del disco, tuttavia, lo rende una sorta di ‘mosca bianca’ all’interno dello scenario stoner mondiale; una peculiarità che, tutt’oggi, rende difficile descrivere a parole questi cinquanta minuti e, ancora più difficile, tentare di emularli impugnando degli strumenti in mano. Una qualità in possesso solo dei dischi che hanno scritto la Storia. In conclusione, i Kyuss e il loro “Blues For The Red Sun” sono la rappresentazione fisica della sensazione provata dopo un’intera giornata sotto il sole a 50°. Una badilata di sabbia rovente in grado di soffocare.