7.0
- Band: LAETITIA IN HOLOCAUST
- Durata: 00:37:47
- Disponibile dal: 31/05/2024
- Etichetta:
- Dusktone
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Il ritorno della band emiliana marca in maniera evidente la loro componente progressiva, con brani che offrono muri di suono dal notevole impatto.
Un approccio progressivo che non è però finalizzato a mettere in bella mostra la pura tecnica, quanto piuttosto una sorta di narrazione quasi teatrale: salta, infatti, subito all’occhio l’uso della voce gioca su registri filtrati e sussurrati, puntando a un senso di straniamento, a volte quasi ieratico (“Celestial And Buried”), così come il sempre eccellente lavoro dietro le pelli di Marcello Malagoli.
Abbondano i riff circolari che diventano a tratti disturbanti, o si trasformano in conturbanti passaggi acustici, per esempio su “Earth As A Furnace”, che per il resto è pura furia acuita dal blastbeat e dalle chitarre vorticose. Si nota ancor più su “A Dancestep Of Fate”, un brano completamente privo di distorsioni e tra i momenti più evocativi del disco; qui, senza stravolgere il loro sound, i Laetitia In Holocaust riescono a dar forma anche a quei richiami neofolk, a tratti persino goth, che anche in passato si coglieva essere parte delle loro radici musicali.
Radici che affondano perfettamente nell’esperienza di certe band italiane che hanno cercato di non appiattirsi banalmente sui modelli scandinavi (Spite Extreme Wing su tutte), senza però dimenticare certi maestri proveniente dal Grande Nord, Mayhem in primis; ciò è particolarmente evidente in “Murmurs Of Faith”, con il suo affascinante crescendo di cattiveria allucinata, in cui si conferma la versatilità vocale di S. “Jvlivs Caesar Germanicvs” è un brano strumentale di raffinato estremismo, se ci passate l’ossimoro, che funge da perfetto cardine tra le due parti del disco; “Devotio” è probabilmente la traccia più prog in senso stretto, con il basso in grande spolvero e un’accattivante gusto mediterraneo, mentre la conclusiva “From Plowshares To Swords” intreccia gusto melodico e intransigenza, strizzando l’occhio – in forma sempre assolutamente personale – all’avantgarde di Ved Buens Ende o Dødheimsgard, con qualche spruzzata di quel gelido romanticismo che la scena dell’Est Europa ha saputo far esplodere in ambito black da un paio di lustri.
Si tratta insomma di un disco che convince per impatto, ma che non può deludere nemmeno i palati più esigenti.