6.5
- Band: LAMBS
- Durata: 00:32:26
- Disponibile dal: 27/09/2019
- Etichetta:
- Argonauta Records
- Distributore: Goodfellas
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Venti di apocalisse soffiano incessantemente nel mondo dei Lambs. Ambientazioni crepuscolari, amarissime, spopolate di speranza, aleggiano sul materiale di un gruppo figlio dell’hardcore evoluto di oggi, propenso ad annerirsi, sbrecciarsi, negativizzarsi, squassato da intrusioni black metal, sludge e post-metal. “Malice” soffoca e scuote, vive di ampi ragionamenti e attacchi spietati, sviluppandosi in composizioni lunghe e tormentate, che si trascinano a lungo prima di concedere temerarie esplosioni. Cinque tracce dove si percepisce un attento lavoro di introspezione nei propri pensieri più cupi, dai quali il suono scaturisce in grumi nerastri serpeggianti fra nubi noise, ambient, arpeggi sinistri. Un costante afflato doom popola il disco, dettagliato in momenti ora alienanti e catatonici, altri velatamente raccapriccianti, oppure sadici, crudeli. La violenza dei Lambs è spesso psicologica, un dolore e una voglia di autopunirsi che filtra da mormorii, rumori di fondo, feedback, che pur nel loro minimalismo incutono un vago timore, impossibile da scacciare. Aridità, grigiore, pessimismo, sono sensazioni che calano addosso nei primi attimi di ascolto, e restano lì, stolidi, rivitalizzati da botte di adrenalina che reclamano il tributo al black metal e al d-beat/swedish death, quindi ammorbati dal desiderio di lasciarsi andare completamente all’agonia. L’umore complessivo rimanda al colossale, energico senso di sconforto dei Tragedy, oppure agli aneliti distruttivi dei The Secret e Trap Them, oppure al nichilismo dei Converge più heavy.
I Lambs sfruttano ingredienti conosciuti e pure nella loro mescolanza non effettuano sperimenti chissà quanto arditi, però è evidente che vi sia sufficiente perizia e cognizione per sfornare pezzi di senso compiuto, che sappiano suggerire un certo tipo di (malata) atmosfera senza abusare di partiture angoscianti e sovraccariche di astio. Anzi, è proprio nella sottile ambivalenza dei momenti più depressi e chiusi su se stessi, come il rauco digradare nella mestizia della prima parte di “Ruins” o lo sfinimento esistenziale suggerito dalle dicotomie vocali in avvio di “Perfidia” (qui particolarmente incisivo il cantato in italiano), che il quartetto mostra le sue migliori qualità. Gli scoppi d’ira, filtrati da registri armonici evocativi di un profondo malessere interiore, prendono strade più consuete, pur non rimanendo fissi su schemi rigidi né scadendo nel becerume. Il catastrofico infrangersi nel rumore di “Misfortune”, dal finale agghiacciante per come gli strumenti urlano e s’addensano in una matassa ispida e disturbante, lascia addosso genuina inquietudine. Ultimo ricordo di un album che magari non brilla di luce propria, non offre spunti ingegnosi o chissà quanto sfavillanti, però rivisita con passione e competenza quel mix di hardcore, black metal e sludge così in auge nel metal estremo contemporaneo.