8.5
- Band: LED ZEPPELIN
- Durata: 00:40:50
- Disponibile dal: 28/03/1973
- Etichetta:
- Atlantic Records
- Distributore: Warner Bros
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Dopo il successo del loro quarto lavoro, i Led Zeppelin sono consapevoli di dover continuare a cavalcare la tigre, realizzandone al più presto il seguito. I quattro vanno in cerca di nuove ispirazioni con un viaggio in India: l’idea iniziale sarebbe stata quella di registrare direttamente delle tracce in loco, magari condividendo lo studio con qualche suonatore di raga, ma la cosa non va in porto. I quattro, però, tornano con numerose idee e, unite nuovamente le forza con il tecnico del suono Eddie Kramer, si rimettono al lavoro, nel maggio del 1972, per un nuovo lavoro.
Il risultato di queste sessioni è “Houses Of The Holy”, ennesimo lavoro di altissimo livello che, però, appare un po’ più altalenante, come se Page e compagni fossero alla ricerca di nuovi campi d’azione, cercando di sganciarsi – con esiti a volte eccellenti, a volte meno – dal loro classico trademark.
L’apertura è affidata a “The Song Remains The Same”, brano inizialmente pensato come strumentale, che in fase di lavorazione viene integrato anche delle parti vocali. Splendidi gli intrecci strumentali, con un Jimmy Page ancora in stato di grazia, che aprono le porte a “The Rain Song”, una ballad delicata, sensuale, che si muove sinuosa tra ricami acustici e un uso sapiente del mellotron suonato da John Paul Jones. Non meno efficace la splendida “Over The Hills And Far Away”, che spinge nuovamente sull’acceleratore, bilanciandosi con invidiabile equilibrio tra quel selvatico abbandono orgiastico che ha conquistato legioni di fan e l’eleganza di musicisti ormai maturi e pienamente consapevoli dei propri mezzi.
Se per queste composizioni la band si è mossa comunque all’interno di un territorio familiare, le tre canzoni successive vedono Page e compagni provare ad imboccare strade diverse: “The Crunge” parte da un’idea di John Bonham e vede i Led Zeppelin cimentarsi in una sorta di funk a là James Brown; “Dancing Days” gioca con le melodie facili e solari di un certo pop in voga in quegli anni; ma la vera sorpresa arriva con “D’yer Maker”, il cui titolo non è altro che l’assonanza della parola “Jamaica”. Chi si sarebbe mai aspettato di sentire i Led Zeppelin cimentarsi in un brano che gioca con il raggae? In tutti e tre i casi citati la qualità resta comunque alta, non lo neghiamo, tuttavia rispetto alla volontà quasi feroce di tracciare la propria strada espressa nei primi quattro dischi, per la prima volta sembra che i Led Zeppelin non sappiano al cento per cento dove voler andare.
Ci pensa “No Quarter” a dare la direzione, ponendo il sigillo su uno dei capolavori assoluti della band. Il brano, scritto da Jones, mostra al meglio la maturazione del bassista, che in quest’album acquisisce un ruolo centrale rispetto all’asse Page/Plant. Jones, che comunque è sempre stato fondamentale nell’economia dei Led Zeppelin, pur lavorando spesso dietro le quinte, con “No Quarter” firma un brano cupo e misterioso, che flirta con la psichedelia, dando spazio a tutta l’abilità del polistrumentista, che si ritaglia finalmente uno spazio (anche dal vivo) tra pianoforte e tastiere. Decisamente più convenzionale, invece, la chiusura con “The Ocean”, un omaggio di Robert Plant verso il suo pubblico che ondeggia, si accalca e si ritrae, durante il baccanale dei concerti, come il mare che lambisce la spiaggia.
Dopo la splendida e arcana copertina di “Led Zeppelin IV”, anche in questa occasione non compare il nome della band sulla facciata frontale, lasciando tutto lo spazio allo splendido lavoro della Hipgnosis (che ricordiamo è lo studio alla base delle più celebri copertine dei Pink Floyd): una rielaborazione di una foto con dei fanciulli nudi, che si arrampicano su una formazione vulcanica nell’Irlanda del Nord. Un’immagine che comunica con forza, portando avanti quell’aura di misticismo e mistero così importante per la band.
Le reazioni ad “Houses Of The Holy”, anche a distanza di anni, sono contrastanti: c’è chi lo considera un episodio interlocutorio e chi, invece, lo annovera tra i capolavori assoluti della band. Forse non arriviamo a tanto, nella nostra valutazione, ma quello che è certo è che ci troviamo nuovamente di fronte ad un lavoro dalla qualità altissima, scritto da una band che non ha ancora sbagliato un colpo e che ha voglia di mettersi in gioco, alzando sempre di più asticella, verso obiettivi ogni giorno più ambiziosi.