8.0
- Band: LEPROUS
- Durata: 01:05:36
- Disponibile dal: 25/05/2015
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Universal
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La band di Oslo non ha più bisogno di presentazioni ormai: il loro nome è stato molto spesso associato ad una delle realtà più interessanti del filone progressive metal dell’ultimo periodo, anche e soprattutto grazie alla precedente triade di dischi, con menzione speciale per il miracoloso e marsvoltiano “Bilateral” e l’ottimo successore “Coal”, ormai un biglietto da visita imprescindibile, tanto che ormai nessun Ihsahn ha bisogno di spingere più per far parlare del nome Leprous. Il quarto disco dei norvegesi è anche stato anticipato dal singolo “Rewind” che brilla sicuramente per la sua camaleontica pelle di veemenza d’arrangiamento e cura ritmica, tanto che aveva già suscitato critiche e speranze entusiastiche per questo nuovo lavoro. Effettivamente “The Congregation” non è un album che ammicca facilmente all’ascoltatore fin dal primo ascolto e questo nonostante l’impatto sicuramente intrigante che l’album ha nella sua interezza; ma c’è qualcosa che deve essere percepito pian piano, ascolto dopo ascolto, una classe che i Leprous hanno imparato a nascondere come patrimonio intimo e non come messa in mostra delle proprie capacità. E se per molti questo è il segreto del progressive contemporaneo, allora è naturale che una band di questa caratura risulti essere quello che si dice siano veramente: una ventata di freschezza per il progressive metal di nuova generazione. “Questo è stato senza dubbio l’album più complesso da scrivere finora, per l’ammontare di ore, sangue, sudore e lacrime che ci sta dietro”, scrive Einar Solberg, ancora compositore principale del lavoro. “The Congregation” ha infatti un cuore pulsante di un fascino nascosto eppure percepibile immediatamente. L’ermetismo dei testi si fa sempre più minimale e denso di simbolismi, di mestiere ma anche di spirito egualmente valido, come nell’evocativo passaggio iniziale “The gutter parts us / From the rain / Up on the hill /Tough and alone
Perfectly filling / His desolate throne”, introdotto da sincopi effettate. In questa prima “The Price” si capisce già che ancora una volta il nome Leprous può essere associato ad una produzione di qualità sia per forma che per contenuto. Se poi si continua con “Third Law” si può anche affermare che il nuovo entrato Baard Kolstad dietro le pelli abbia fatto in suo ingresso definitivo nella band in maniera superba, arricchendo addirittura il panorama cadenzato e offrendo un tocco (jazzato, quasi, anche merito del lavoro di Jens Bogren, come per i precedenti album) ancora più fine ed elegante. L’epicità del disco – forse uno dei caratteri fondamentali rispetto ai precedenti lavori, proseguendo l’attitudine portante di “Coal”- cresce pian piano e raggiunge il primo punto fondamentale in “The Flood”, magnifica mareggiata di emozioni e arrangiamenti, con un Solberg in gran spolvero, così come nell’emozionante chiusura del disco con l’accoppiata “Down”/”Lower”, dove il climax di pathos del disco raggiunge lo zenit. La malinconia di “Red” e “Slave” sembra (non solo cromaticamente) ricordare, per alcuni nostalgici, le bellissime linee di Ray Alder in “A Pleasant Shade Of Grey” dei Fates Warning e qualcosa di gruppi come Riverside, sia per linea vocale ma anche per arrangiamenti e sonorità aperte e avvolgenti, così come per impatto e forma si ricordano le ultime uscite australiane di Dead Letter Circus e Karnivool per l’impatto più moderno e affabile. Un melting pot più naturale che derivativo e parallelamente sempre assolutamente personale e intrigante rende questo “The Congregation” un raduno di influenze capillari sanguigne che portano ad un cuore pulsante (in tempo dispari, ovviamente) che difficilmente lascerà indifferenti. Dopo quattro ottimi dischi non si può più mettere in discussione il valore di questa band.