6.5
- Band: LETTERS FROM THE COLONY
- Durata: 00:55:39
- Disponibile dal: 16/02/2018
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Audioglobe
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Mossa-boomerang e piuttosto rischiosa, quella della Nuclear Blast, di mettere sotto contratto gli svedesi Letters From The Colony e pubblicare il loro debutto sulla lunga distanza intitolato “Vignette”. L’exploit della label tedesca con i Meshuggah, avvenuto ormai più di vent’anni fa, è probabilmente irripetibile, sebbene siano poco in discussione la capacità tecnica ed il coraggio di questo quintetto scandinavo, che propone difatti una sorta di progressive techno-thrash (o vogliamo chiamarlo progressive djent?) che imbeve il suo DNA al 90% in quello della band di Fredrik Thordendal e Tomas Haake, scopiazzandone a più riprese i giochi in tempi strambi, il palm-muting ovunque e i classici assoli nervosi e schizofrenici portati in auge dal combo di Umea. I Nostri provengono invece da Borlange e partendo, come già scritto, da basi meshugghiane, cercano poi di inserire inventiva personale, lampi jazzati e dicotomie atmosferiche in un contesto che lambisce Opeth e The Dillinger Escape Plan, oltre che tutta quella moltitudine di formazioni, amate-odiate, della scena djent. A livello esecutivo la compiutezza di “Vignette”, fra l’altro dotato di una fuorviante copertina a metà strada tra Mastodon e Baroness, è ottima, portante in dote, fra le altre cose, un songwriting in parte azzardato ma anche ben studiato e sperimentalmente valido; peccato, però, che il disco risulti tremendamente freddo e con un sentore di già sentito troppo debordante e debitore dei soliti riff ripetitivi e ondeggianti. Sebastian Svalland e Johan Jonsegard (quest’ultimo anche negli ultimi October Tide, come il batterista Jonas Skold) ce la mettono tutta per conferire solenne fantasia ad un riffing che purtroppo stanca dopo tre-quattro brani e fa calare drasticamente l’attenzione, facendoci mettere il pilota automatico della prevedibilità, quando l’accento progressivo dei Letters From The Colony dovrebbe invece instillare tutto l’opposto nella mente del fruitore. Tutto molto prevedibile, dunque, e anche la voce di Alexander Backlund non aiuta a spazzar via tale noiosa sensazione: monocorde e sempre urlata in uno scream-growl anch’esso molto simile, ma meno incisivo, a quello di Jens Kidman. Si salvano meglio gli spezzoni in cui fughe solistiche e strumentali prendono il sopravvento, come ad esempio durante tutta la seconda parte dell’opener e ‘singolo’ “Galax” o nella sezione centrale di “Glass Palaces”. Il minutaggio piuttosto corposo di “Vignette” non permette di lenire questo giudizio dolceamaro su di un lavoro che non penetra abbastanza a fondo nella corteccia cerebrale per farsi piacere appieno. Pur abituati ad ascolti ben più impegnativi, la manciata di canzoni preparata dai Letters From The Colony è pesante da digerire, sebbene procedendo faticosamente con i passaggi qualche miglioria inizia pian piano a farsi strada. Pezzi brevi e più incisivi come “Cataclysm”, “Terminus” e “Sunwise” paiono funzionare meglio durante le prime battute, ma è solo un fuoco di paglia dovuto alla pesante carica di dinamismo che si presenta alle nostre orecchie. Oltre una abbondante sufficienza non si riesce proprio ad andare, e non sarebbe neanche corretto farlo, per un combo ambizioso e probabilmente più interessante di quanto è stato in grado di trasmetterci in questa prima opera di peso. Da risentire ad un eventuale secondo tentativo, fra qualche anno.