7.0
- Band: LIFE OF AGONY
- Durata: 00:40:44
- Disponibile dal: 11/10/2019
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
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A conferma di un ritorno sulle scene a tutti gli effetti, i Life Of Agony ci hanno fatto attendere appena due anni per un nuovo disco, con il quale vengono fugati tutti i dubbi sulla solidità della band. La più grande novità è, ovviamente, l’ingresso in formazione di Veronica Bellino, talentuosa e roboante batterista che, almeno in termini di capacità, non fa rimpiangere Sal Abruscato. Certo, è tutto un altro paio di maniche colmare il vuoto lasciato da un membro fondatore di tale peso (in ogni senso…), ma anche da questo punto di vista “The Sound Of Scars” non delude, anzi; rispetto al precedente “A Place Where There’s No More Pain”, un lavoro sicuramente onesto, ma interlocutorio e rappresentativo di una fase di crisi e rinascita ancora in fieri, ci troviamo qui di fronte a un album concreto e ben amalgamato, sia in termini di songwriting che di resa sonora. I richiami al seminale “River Runs Red” sono numerosi: innanzitutto dal punto di vista tematico, visto che questo full-length si presenta come un concept la cui storia riparte ventisei anni dopo il punto in cui ci si era fermati alla fine del loro primo disco, con il tentativo di suicidio del giovane protagonista. Ancora, le sofferenze personali e le introspezioni presenti nei testi sembrano essere uno specchio molto diretto e sentito dei patemi e delle cicatrici che si sono accumulate sui membri della band in questi lunghi anni, con anche i diversi intermezzi parlati a confermare la forma di un concept di auto-analisi. Dal punto di vista musicale, all’opposto, i Life Of Agony non cedono all’approccio suicida e lugubre degli esordi, proseguendo invece sulle sonorità alternative metal di “Broken Valley”, anche se molto più incisive. La produzione è compressa, con riff potenti e ribassati su cui la voce di Caputo ondeggia efficacemente, come una specie di Layne Staley meno allucinato, ma sempre ricco di cupezza; meritano citazione i brani dove le linee vocali sono più struggenti, come “Black Heart” o “My Way Out”, accattivante highlight del disco, o – in tema di richiami al grunge – “Weight Of The World”. Ma cosa emerge con forza è il lavoro davvero egregio della Bellino, con controtempi e potenza vicini al lavoro di colleghi che hanno segnato gli anni Novanta: pensiamo a John Tempesta o David Silveria, ben evidente in tracce sincopate come “Lay Down” o “Empty Hole”. La conclusiva “Once Below” tira le fila delle due anime presenti sul disco, aggiungendo anche un vago gusto psycho-industrial e confermando un comeback magari non da mascella aperta, ma di chiara qualità; un sincero ‘atto secondo’, un quarto di secolo dopo il loro capolavoro d’esordio.