7.0
- Band: LORD MANTIS
- Durata: 00:47:11
- Disponibile dal: 29/04/2014
- Etichetta:
- Profound Lore
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Ne girano da mesi, di voci attorno a questo album. Che sia il lavoro più “criminale” e offensivo vero l’umanità mai fatto, che sia il lavoro più abietto, livido, carico di odio e repulsivo verso razza umana che sentirete quest’anno, eccetera, eccetera… eccetera. La stessa Profound Lore ha millantato (seria o per puro stunt promozionale) preoccupazione nel licenziare un lavoro che potrebbe finire nel mirino della polizia per istigazione all’odio, e sono circolate anche tante altre voci più o meno fantasiose sul lavoro, come per esempio la teoria secondo la quale il disco sarebbe nato dall’odio totale provato dai membri della band addirittura gli uni verso gli altri e come questo sia stato realizzato in studio dai quattro per “non dover aver a che fare gli uni con gli altri per qualche anno”. Insomma, se ne sono dette tante sul lavoro, la copertina poi è decisamente tra le più scioccanti dell’anno (cortesia di Wrest dei Leviathan), i testi sono un qualcosa al limite della decenza, e il retroscena dei membri è effettivamente tutt’altro che rassicurante. Parliamo infatti di una band formata da membri presenti e passati di Nachtmystium, Abigail Williams, Indian, Avichi, Aborted e tanti altri, ovvero una bella accozzaglia di brutti ceffi, non c’è che dire. Ma ciò che in ultima istanza svetta su tutto è l’innegabile probabilità che tutti questi “accorgimenti” per presentare la band sotto una luce scioccante e non adatta ai minori o deboli di stomaco, siano null’altro che il frutto del tentativo disperato di voler presentare come “inusuale” un lavoro che alla fine è di quanto più basilare e familiare (nei suoni, per lo meno) ci sia al mondo. Il blackened sludge non è un’invenzione dei Lord Mantis, sono anni che il genere striscia nell’underground (band come Alkerdeel, Coffinworm e Primitive Man hanno già ottenuto risultati ben più ragguardevoli nel campo) e in ultima analisi non possiamo neanche negare come la formula dei Nostri rappresenti una sorta di alternativa più annerita alla musica degli stretti cugini Indian, con i quali i Lord Mantis condividono il batterista. Parliamo di un doom-sludge ferale e ultra-violento impestato da scorie noise e arroventato da dosi disumane di odio e rigetto per l’umanità prese in prestito direttamente dai Blut Aus Nord, dai Rotting Christ, dai Watain e dai Leviathan, appunto. Il ristulatio è un bulldozer di violenza davvero senza scrupoli, costituito da voci infernali e sprezzanti, da una sezione ritmica a mo’ di mietitrebbia che non si ferma mai e davanti a nulla e da riff di chitarra imbestialiti e assassini che cercano di scovare esseri umani da ammazzare in ogni angolo del disco, senza sosta. Sì, il tutto è davvero ragguardevole e a tratti anche impressionante, ma i Nostri hanno per caso mai raggiunto gli abissi di semplice e sublime paranoia di un “Sadness Will Prevail”? O il male supremo di un disco come “Ite Maledicti”? Giammai. E la violenza iconoclasta di un album come “Filth”? Mai e poi mai. “Death Mask” è semplicemente un disco che sciocca all’interno del prevedibile, all’interno dei cliché dello scioccante. Ci scuote in un modo in cui ci aspetteremmo di essere scossi, ma non lo fa in maniera inaspettata. Le difese per affrontare il disco insomma le abbiamo, poiché questo ci arriva alle orecchie in un linguaggio familiare e già conosciuto. Non è un album che ci scardina le difese con un assalto nuovo al quale siamo del tutto impreparati, o con armi nuove per le quali non abbiamo alcune difese. Non presenta minacce nuove per cui, noi che siamo come già vaccinati e immuni alla loro proposta, abbiamo gli anticorpi necessari per resistere al loro impatto poiché altre band in passato ci hanno già rovinato l’esistenza con minacce ben più gravi e ai tempi più sconosciute di questa. I loro cugini più stretti, gli Indian, per dire, già hanno fatto meglio solo qualche mese fa con il loro sublime “From All Purity”. Resta il fatto che, per quanto riguarda la violenza e l’odio del tutto gratuiti e fine a se stessi proposti in formato musicale, questo disco rimarrà senza dubbio uno degli apici dell’anno, ma, come abbiamo detto, questo non sempre basta a lasciarci impresse cicatrici durature che ci fanno gridare al miracolo.