6.0
- Band: LORD MANTIS
- Durata: 00:46:31
- Disponibile dal: 13/03/2012
- Etichetta:
- Candlelight
- Distributore: Audioglobe
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Viaggiando sulla stessa linea d’onda di band come i Tombs, gli Unearthly Trance, e i Castevet, i Lord Mantis propongono uno sludge metal forsennato e inferocito che fa leva più sulle nefandezze e la furia del black metal, che sulla cacofonia strisciante e melmosa del doom metal o del crust per trasmettere il suo misantropico messaggio. La formula della band di Chicago fa leva anche su qualche tatticismo “new-school” tanto in voga oggi giorno tra le band sludge, ovvero sfrutta un suono lavico, propulsivo e stratificato per aumentare la propria potenza distruttiva, come i capostipiti di questo nuovo sottogenere insegnano, ovvero Black Cobra e High On Fire in primis, ai quali inevitabilmente i nostri assomigliano non poco, anche se in vesti ovviamente molto più “negative”. I rimandi ai loro colleghi appena menzionati sono in vero talmente facili e spontanei che avrete già capito che non ci troviamo assolutamente di fronte a una band che sta riscrivendo chissà quali regole dello sludge-black, e che fa il suo sporco lavoro a testa bassa, con onore ma senza colpi di genio di rilievo. Va detto che i Lord Mantis non sono comunque certo dei novellini e anche se la loro discografia è ancora ristretta, la band è formata da quattro bucanieri che di palchi ne hanno calcati in abbondanza e che di polvere nera ne hanno incendiata a tonnellate in altre band. I Lord Mantis, in infatti, non sono null’altro che il bassista/vocalist Charlie Fell (Nachtmystium, Von, Von Venien), il batterista Bill Bumgardner (Indian), e i due chitarristi Andrew Markuszewski (Avichi, Nachtmystium, Von, Von Venien) e Greg Gomer. Il curriculum di “Pervertor” è rinforzato dal fatto che è anche stato registrato dal solito e iper-prolifico Sanford Parker e che è adornato dallo splendido artwork di Justin Bartlett (Watain, Sunn O))), Trap Them). Nonostante tutto, di una vera rivoluzione non vi è traccia, e i Nostri portano a compimento il disco in maniera asettica e formale, concentrando tante energie su dei riff e delle ritmiche violentissime ma per niente intriganti e delle voci laceranti, ma anche costantemente monotono e dunque ripetitive. Vanno comunque menzionati alcuni degli assoli di Markuszewski e Gomer, che in certi frangenti sfiorano le polverizzanti linee chitarristiche tipiche dello space rock e in altri si lasciano andare a dei pick-slide deliranti e ripetuti in serie che danno alla musica un taglio molto interessante e ambiguo, quasi di stampo industrial. Appunti che vanno fatti per dovere di cronaca, ma che non risollevano certo le sorti di un lavoro riuscito, ma nel complesso per niente rivoluzionario.