9.5
- Band: MACHINE HEAD
- Durata: 00:55:38
- Disponibile dal: 09/08/1994
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Universal
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“The rage to overcome it all…”
In tutta sincerità ci stiamo pensando solo adesso, nel mentre in cui ci accingiamo a scrivere questa recensione Bellissima: a distanza di quattro giorni dall’uscita nei negozi dell’attesissimo “Unto The Locust”, settimo album dei californiani Machine Head, vi proponiamo all’attenzione anche la disamina del loro mastodontico debutto, quel “Burn My Eyes” che ancora oggi pare inarrivabile per chiunque si cimenti in un certo tipo di thrash metal. Se vi sembra fatto apposta per cavalcare l’onda e pompare l’hype della band, ebbene non è così, solo pura coincidenza.
Ma facciamo giusto questi diciassette anni di passi indietro e catapultiamoci nel 1994, quando il quartetto in questione era in giro da solo due anni e aveva rilasciato un semplice demo promozionale. In quegli anni si era in pieno periodo grunge, inutile ricordarlo per l’ennesima volta, nonostante Metallica, Megadeth, Pantera e Slayer provvedevano comunque a tenere alto il vessillo metallico in un’orgia di depressione e malessere Seattleiano. E nell’agosto del 1994, direttamente da Oakland – terra d’origine dei Green Day, è vero, ma anche di tali Neurosis, non dimentichiamoci! – ecco spuntare praticamente dal nulla questi Machine Head, con un disco spaccapietre edito dal colosso Roadrunner Records.
Ci piace iniziare a scrivere riguardo “Burn My Eyes” da un elemento che forse in pochi prendono in considerazione quando ci si approccia a tale lavoro: l’atmosfera. Per chi scrive, uno dei più grossi pregi dell’esordio dei Machine Head – al di là del groove assurdo, del riffing disarmante, della voce-della-madonna di Robb Flynn – è proprio la sensazione di rabbia claustrofobica e sfogo a malapena contenuto che tutta la tracklist riesce a trasmettere, in un crescendo anthemico di pathos, marciume e corruzione. Società, politica, religione, guerra, droga, soprusi, rispetto, razzismo: tutti gli argomenti che lambiscono le lyrics di Flynn, o ci si impantanano dentro completamente, sub-odorano di tensione lì lì per esplodere, a pugni e braccia tremanti per l’indignazione e a braccetto con una repressione da frustrare il prima possibile, pena l’altrui annichilimento. Sotto questo punto di vista, ci pare che “Death Church” sia l’episodio che meglio rappresenti quanto appena descritto.
E la musica, quindi. Ebbé: i Pantera di “Vulgar Display Of Power” avevano fatto sfracelli appena due anni indietro e sono da poco usciti con “Far Beyond Driven”; gli Slayer, reduci da “Seasons In The Abyss”, sono in procinto di pubblicare “Divine Intervention”; i Sepultura hanno fatto il botto l’anno prima con “Chaos A.D.”; e sempre un anno prima i Carcass si ammorbidiscono con “Heartwork”, che vede in consolle tale Colin Richardson, producer di incredibile gusto e orecchio. I Machine Head, ma soprattutto la Roadrunner, affidano il suono di “Burn My Eyes” proprio a Richardson e ciò che scaturisce dalla sua sapienza è musica devastante, potente, che urtica in maniera inquietante, tanto che ancora oggi questo lavoro ha un suono modernissimo e roboante, superiore di molto alle produzioni-copycat del nuovo millennio. Robb Flynn è un vocalist atipico, con un timbro molto particolare e presto riconoscibile, dotato di picchi puliti-ma-non-del-tutto che sono in grado di dare forma a dei ritornelli orecchiabili ma allo stesso tempo poveri di melodia e comunque brutali (basti l’esempio di “Old” per dare un’idea); il riffing, le distorsioni e i soli combinati tra Flynn e Logan Mader sono un’altra delle peculiarità care ai primi Machine Head, divisi in maniera egregia tra groove monolitici (chi non ha mai sbattuto la testa sull’outro di “Davidian” o saltellato sul riff delle strofe di “A Thousand Lies”?), accelerazioni hardcore lancinanti e senza scampo (“None But My Own”, “A Nation On Fire”, “Blood For Blood”, l’inno “Block” e il suo gettonatissimo ‘fuck it all!’) e sezioni in cui il thrash old-style si pastura con il Pantera sound e lo va a trasformare ed impreziosire; senza neanche stare a rammentare i molteplici passaggi arpeggiati che oscurano d’ansia e deformano i brani più delicati (“I’m Your God Now” su tutti); arriviamo alla sezione ritmica e qui, dove Adam Duce riesce a dare un’abissale profondità alle sue preziose linee di basso, bisogna togliersi il cappello davanti all’estro e all’inventiva di Chris Kontos, drummer poi persosi nei meandri di una testa non esattamente regolare: il Nostro crea dei pattern assolutamente avvincenti e a tratti portanti, integrando il lavoro delle corde con fantasia ed un’incredibile varietà di soluzioni.
Non vogliamo addentrarci ulteriormente – per non annoiarvi ulteriormente! – nella rilettura di una tracklist che dovrebbe essere nota a chiunque si sia cibato di thrash metal, death metal e metal-core (fors’anche nu-metal?) negli scorsi quindici anni. Sappiate solo che per noi “Burn My Eyes” rappresenta quasi la perfezione, avendo superato con pieno merito anche la prova del tempo, caposaldo assoluto del thrash metal moderno. Noveemezzo e tutti a casa.
“…an open mind with a closed fist”.