
8.5
- Band: MACHINE HEAD
- Durata: 00:52:36
- Disponibile dal: 25/03/1997
- Etichetta:
- Roadrunner Records
Spotify:
Apple Music:
Durante tutta la seconda metà degli anni Novanta – e non che nella prima ci fosse stato meno caos – la scena metal sui generis di tutto il mondo è completamente in subbuglio, asserragliata da più parti dai vari fenomeni e movimenti che in quegli anni facevano danni o compievano prodezze, dipende dal vostro punto di vista: i filoni del grunge, del revival punk e pop-punk, della musica alternativa e del crossover erano ancora ben in forze, mentre il carrozzone nu metal aveva già posto le basi pochi anni prima, con i debutti-capolavoro di Korn e Deftones, ed era in fase di esplosione commerciale. Se il thrash metal più immacolato viveva un momento di falso appannaggio, a favore di musica più estrema e più sperimentale – le molteplici diramazioni che partirono da death, black, gothic e doom metal – il metallo apparentemente più di successo di quegli anni era quello che univa il thrash al groove metal, prendendo soluzioni un po’ a destra e a manca all’interno di tale calderone globale in ebollizione.
Più precisamente, nel 1997, i Pantera avevano già lanciato le loro bombe migliori e (soprav)vivevano attorno alle turbolenze di un Phil Anselmo pressoché incontrollabile; i Sepultura, dopo il divisorio esito di “Roots”, si trovavano sciolti in una guerra fratricida, con all’orizzonte dischi mediocri da una parte e i fortunati Soulfly dall’altra; i Fear Factory, dal canto loro, dopo aver scalato la montagna con l’incredibile “Demanufacture”, avevano deciso di darsi la zappa sui piedi pubblicando il disco di remix “Remanufacture (Cloning Technology)”, destabilizzando non poco la loro pur open-minded fanbase; che dire di altri? Megadeth, Metallica, Slayer, Iron Maiden, Judas Priest… chi più chi meno, tutti i pesi supermassimi dell’heavy metal si trovavano in fase transitoria di carriera e di consensi. In mezzo a ciò, ovviamente stavano anche i Machine Head, il cui debutto “Burn My Eyes”, apparendo quasi dal nulla, tre anni prima si era issato tranquillamente ad occupare una delle ideali dieci posizioni di disco metal migliore del decennio. Concerti e tour incendiari e recensioni entusiastiche avevano contribuito ad alimentare l’aura di ‘very next big thing’, ancora molto prima dell’apporto bulimico dell’ego smisurato del loro frontman, leader, social media manager e padrone assoluto Robb Flynn.
Cos’era successo, però, all’indomani dell’uscita di “Burn My Eyes”? Dopo lo storico filotto di concerti di supporto a Slayer e Biohazard (per il Divine Intourvention) ed il tour europeo con Meshuggah e Mary Beats Jane, i Machine Head, dopo quasi un anno e mezzo di ininterrotta attività live, si trovano all’improvviso senza batterista, in quanto Chris Kontos si accasa momentaneamente dai Testament. Flynn, con il fido Adam Duce al basso e la testa calda Logan Mader alla seconda chitarra, scova dai Sacred Reich l’ottimo e potente Dave McClain, drummer meno fantasioso di Kontos ma che assicura una precisione ed una ‘pacca’ notevole alla formazione di Oakland.
Roadrunner Records ovviamente preme per un secondo disco e, dopo una gestazione rapida ma altalenante (McClain ha un incidente e deve stare fermo per un po’ di tempo, fra le altre cose), ecco spuntare “The More Things Change…”, fra i lavori più attesi in assoluto dell’annata. Il secondo disco dei Machine Head, pur vivendo tutt’oggi oscurato e all’ombra del più ispirato ed iconico “Burn My Eyes”, è ancora ben lungi dal tuffarsi appieno nella sbandatona verso il nu metal che i Nostri subiranno prepotentemente nei dischi successivi, ovvero “The Burning Red” e “Supercharger”. “The More Things Change…”, fortuna sua e nostra, regge ottimamente il paragone con il suo predecessore, innestando sì qualche deriva modernista e più groovy, risultando sì meno drammatico e meno tetro, ma dall’altro canto tirando fuori affilatissimi artigli hardcore, un taglio nettamente live-oriented e idee comunque ancora freschissime e capaci di scavare in profondità, mantenendo intatta quell’aura progressiva che i brani più lunghi di “Burn My Eyes” ci avevano insegnato ad ammirare. In “The More Things Change…”, limato e perfezionato in consolle da Colin Richardson alla produzione e Flynn, lo stesso Richardson ed Andy Sneap al missaggio, a ben vedere non presenta nessun calo d’attenzione durante la tracklist ed è difficile trovare, anche dopo tanti anni dalla sua uscita e tanti anni di ascolto, un brano od un episodio realmente debole, in quanto, come anche nel precedente lavoro, tutto si incastra alla perfezione senza stancare mai.
McClain alle pelli, come già accennato più sopra, ha la ‘pacca’ e i pattern giusti per sostenere con decisione le strutture quadrate, spesso marziali ma anche tanto fantasiose delle costruzioni della coppia Flynn/Mader; Adam Duce fa vibrare il basso con uno spessore impressionante e delle linee sempre udibili e portanti; la coppia di chitarristi, senza mai prevalere uno sull’altro, si diverte ad alternare soluzioni mai statiche, mai banali, sempre ben intrecciate fra di loro ed in grado di scuotere muscoli, anima e cervello, che siano riffoni paurosi, assoli repentini o giochi e passaggi effettati sulle corde; la voce di Robb, anch’essa pressochè inattaccabile, probabilmente è un pelo meno intensa rispetto al passato, cerca più la performance di potenza o ad effetto ed un certo, ancor flebile, rimando a cantati ‘nu’, che però ancora non stonano, non danno fastidio e, in definitiva, spaccano tutto.
Cosa dire delle dieci tracce di “The More Things Change…”? La triade d’apertura è devastante, tre canzoni brevi, killer, cariche di groove, hardcore-oriented, tre potenziali singoli sbaraglia-concorrenza: “Ten Ton Hammer” è anthemica, totalmente diversa da “Davidian”, già settata verso panorami sonici vicini ai Korn, ma è perfetta per quegli anni, con quel bridge+refrain classicamente Machine Head che tutti abbiamo sbraitato a voce piena; “Take My Scars” la riconoscete tra mille per quella chitarrina iniziale così penetrante, presto doppiata dal basso di Duce e da una seconda chitarra ancor più sinistra…per poi far partire l’adrenalina degna di un secondo pezzo tellurico; “Struck A Nerve” strizza l’occhio ai Biohazard migliori di quegli anni, scarica hardcore dalla frenetica attività, dotata però di una sezione centrale ancora dominata da una linea di Duce e da una chitarra ondeggiante che sale fino ad esplodere in una parte semi-rappata ma che tira via la pelle di dosso, un piccolo capolavoro di violenza.
A questo punto “The More Things Change…” ci ha già conquistato, quindi i Machine Head decidono di piazzare un secondo terzetto di canzoni più ragionato e ‘placante’, memore delle lezioni in penombra di brani quali “Death Church” o “I’m Your God Now” del disco di tre anni prima: “Down To None” è un crescendo spaventoso di atmosfera, potentissima nel suo lento impossessarsi della scena, una traccia che viene fuori sulla distanza e non molla più; “The Frontlines” e “Spine” alzano ancora i minutaggi dei singoli brani, con la prima caratterizzata da un nervosismo sempre presente, un riffing di prima categoria e da un bellissimo stacco arpeggiato a centro canzone, per non citare di nuovo il basso debordante che, guarda caso, introduce la successiva “Spine” in modo egregio, altro episodio notevole ma che, probabilmente, resta il punto più basso della tracklist, se proprio se ne deve indicare uno.
Con “Bay Of Pigs” si torna amabilmente in zona hardcore, con un brano-clone di “Struck A Nerve”, molto vicino ai Sepultura di “Chaos A.D.”, un rapido doppio schiaffo sulle orecchie à la Bud Spencer che tramortisce. Si arriva finalmente alla coppia di tracce preferita di chi scrive, “Violate” e “Blistering”: non a caso “Violate” è la più lunga del lotto – oltre sette minuti – e qui i Machine Head dimostrano ancora una volta, anticipando i contenuti extralarge di “The Blackening”, di saper costruire piccole sinfonie di dolore e metallo, pregne di senso d’attesa, rabbia montante e fulminee esplosioni d’ira; “Blistering” è invece un flusso continuo di note incessanti, come se un immane terremoto iniziasse a dilagare dal suo epicentro allargando sempre più il suo bacino di devastazione, con un McClain impressionante e finalmente sugli scudi a seguire passo passo il riffing penetrante di Mader e Flynn. Si chiude finalmente con un altro lento crescendo, quello di “Blood Of The Zodiac”, ennesimo esempio di composizione stratificata e sfaccettata che non perde un’oncia in intensità, profondità, atmosfera, potenza ed inventiva.
Abbiamo terminato gli aggettivi, quindi ci pare corretto chiudere la recensione invitandovi a rispolverare questo classico dei ‘tempi moderni’, di certo Bellissimo. Noi ce lo riascoltiamo per la milionesima volta. E tanti saluti ad “Unatoned”.