8.0
- Band: MACHINE HEAD
- Durata: 00:48:52
- Disponibile dal: 27/09/2011
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Warner Bros
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Ci sono formazioni che lottano l’intera carriera per arrivare ad emergere. Altri sguazzano nel lerciume con orgoglio e onestà. Altri, arrivati troppo presto in cima, si disintegrano semplicemente in un battito di ciglia. Pochissimi lasciano il segno all’esordio, incassano, finiscono al tappeto ed hanno la forza di rialzarsi, più forti che mai, andando vincere ancora. Costoro, assaporato il successo, difficilmente riescono ad abituarsi al secondo gradino del podio, e per vincere facile ripercorrono la strada più facile. Questo discorso non si può certo applicare ai Machine Head: evoluti in quel mostro progressive groove thrash di “The Blackening” con rinnovato splendore, nella situazione di dare un seguito all’opera hanno deciso, in maniera audace sino all’incoscienza (dev’essercene per forza una punta nella band ridotta sul lastrico dal flop di “Supercharger”), di manipolare nuovamente la propria arte e darle nuova forma, rischiando il collo ancora una volta. I pezzi sono solo sette, e il minutaggio è elevatissimo, tanto da far presagire a un seguito dell’apprezzata ultima pubblicazione; basta però un ascolto per sorprendersi, rimanendo a tratti a bocca aperta. Mantenendo l’invidiabile qualità e complessità di “The Blackening”, farcita di tecnicismi, svolgimenti estesi e strutture relativamente elaborate (per una band groove/thrash), il gruppo trascende in maniera sfacciata i confini di genere incorporando elementi inediti nel proprio suono, per risultare, in una sola parola, epici come non mai. Lo mostrano gli assoli, le soluzioni melodiche, i sing-along che compaiono nei pezzi, già sviscerati nel track-by-track di qualche giorno fa. Il mix finale è più acre e d’impatto rispetto all’advance analizzato, e guadagna in groove, modernità e pesantezza, ma non snatura le caratteristiche peculiari delle composizioni, che hanno un sapore inedito, ancora thrash e furioso, ancora moderno e scintillante nella mostruosa produzione, ma con quella strizzata d’occhio al metal classico che non ci si aspettava, se non leggendo un improbabile futuro nella cover di “Hallowed Be Thy Name” dei leggendari Iron Maiden. Questa punta di stupore regala a “Unto The Locust” quella marcia in più, che si sposa con le meraviglie compositive di freschezza e ispirazione invidiabile, il tiro, gli arrangiamenti, la velocità, l’intensità lucidissima di una formazione rabbiosa ma in pieno controllo della sua arte, con musicisti pienamente ispirati. L’ambizione è caratteristica fondamentale della raccolta: i suoi connotati sono smisurati nel fondere thrash e groove metal con elementi di progressive e metal classico, infatti i presunti difetti dell’album risiedono quasi totalmente nei pochi passi più lunghi della gamba: parliamo di quelle melodie vocali che sembrano fuori portata per l’ugola di Flynn (in “Darkness Within” e “Who We Are”), e di “Pearls Before The Swine”, un brano che, pur essendo lontano dall’essere debole ,sfigura in incisività ed ispirazione al confronto con le altre sei. Menzione obbligatoria per le controverse bonus track, omaggi a Judas Priest e Rush che getteranno nello sconforto totale gli oltranzisti del thrash, ma che gettano luce sulla direzione intrapresa, con coscienza, dalla formazione di Oakland. Un disco audace sino all’irriverenza, all’insolenza, alla sfrontatezza, che lascia senza fiato e farà discutere a lungo senz’ombra di dubbio. Un disco che potrebbe consegnare ai Machine Head, grazie all’impressionante continuità creativa, l’eredità incerta dei Big Four.