7.5
- Band: MALAKHIM
- Durata: 00:43:31
- Disponibile dal: 31/10/2025
- Etichetta:
- Iron Bonehead Prod.
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
In un circuito – quello black metal svedese – ancora spiazzato dall’annuncio dei Watain, intenzionati a ritirarsi dalle scene nel 2028, non si può dire che manchino le realtà in grado di portare avanti l’eredità dei maestri, mantenendo così accesa la torcia della Nera Fiamma.
Fra queste, dai sobborghi innevati di Umeå, i Malakhim rappresentano da tempo uno dei nomi più affidabili e rispettati da coloro che, in cerca di un’alternativa credibile all’ascolto (l’ennesimo) di un “Casus Luciferi”, amano immergersi in quel flusso carnale e dannato che Erik Danielsson e compagni hanno contribuito a riversare sul mondo, partendo ovviamente dalla lezione impartita negli anni Novanta dai Dissection di “The Somberlain” e “Storm of the Light’s Bane”.
Una carriera che non ha mai avuto dubbi su quale opzione scegliere tra qualità e quantità, sia in termini di uscite discografiche che di apparizioni live, e che oggi, metabolizzato il debut album “Theion” (2021), si arricchisce finalmente di un nuovo tassello in grado di fungere da traghetto verso la piena maturità.
Fin dal titolo, “And in Our Hearts the Devil Sings” immortala quindi il gruppo scandinavo in uno stato di estasi diabolica e grandeur febbricitante, quasi a volergli attribuire il ruolo di officiante di una parata infernale, e facendo della componente melodica un perno centrale e inamovibile per lo sviluppo della narrazione.
Una scelta che, va da sé, non si traduce in uno snaturamento concettuale o in un tentativo di risultare più fruibili e accomodanti, in quanto le atmosfere sataniche e la densità delle strutture, da sole, bastano ancora una volta a scacciare qualsivoglia velleità commerciale, bensì di un approfondimento coerente con la natura del progetto e di certo black-death svedese, in cui l’influsso della tradizione heavy/thrash degli anni Ottanta – dagli Iron Maiden ai Metallica – ha sempre fatto parte del pacchetto.
Qui, incanalando continuamente arie maestose nell’alveo scavato dal songwriting, i Malakhim confezionano una tracklist in grado di sposare con risultati egregi melodia e brutalità, caos e raccoglimento, prediligendo appunto il tema della mini-suite, di brani costruiti come palazzi ricchi di corridoi e di stanze, per invitare l’ascoltatore all’esplorazione attenta dell’opera, un cui pregio è sicuramente quello di emergere appieno sulla lunga distanza, portando sovente alla scoperta di nuovi dettagli e dinamiche.
Il quadro, incorniciato dalle interpretazioni sentitissime dei singoli, fra cui spicca la prova al microfono di E (visto di recente anche nei death metaller Death Pulsation), è insomma quello di un album penetrante a livello ritmico e suadente dal punto di vista melodico, durante il quale, giocando con le armonie chitarristiche e le strutture, i Malakhim riescono a compiere un passo deciso in direzione di uno stile più profondo e riconoscibile.
L’ombra dei maestri è sempre lì, e da quella non si sfugge, ma rispetto all’esordio è evidente come gli svedesi stiano cercando di esprimersi attraverso un linguaggio un po’ più autonomo, azzeccando almeno due/tre episodi sopra le righe come la title-track, “Solar Crucifixion” e “The Firmament Submit”, inni a Satana da annoverare fra i migliori brani black metal del 2025.
Un artwork elegante e una produzione perfetta per lo stile della band, curata da Marcus E. Norman (Naglfar, Ancient Wisdom), rappresentano infine la quadratura del cerchio per un ritorno assolutamente efficace e godibile, e che dal primo all’ultimo minuto non manca mai di sottolineare l’ardore dei suoi autori e la loro corsa, cuore in mano, verso una tenebra che è asilo, casa, rifugio.
