9.0
- Band: MALEVOLENT CREATION
- Durata: 00:34:09
- Disponibile dal: 01/04/1992
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Warner Bros
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Poco più di un minuto. Tanto basta all’intro di “Eve of the Apocalypse”, presa direttamente dalla colonna sonora del capolavoro “Henry, pioggia di sangue”, per immergerci nell’universo sonoro plasmato dai Malevolent Creation in questo pezzo di storia del death metal. Uno scenario metropolitano figlio della Buffalo in cui i Nostri sono cresciuti e scandito da una serie di diapositive violente e depravate, fra maniaci acquattati nei vicoli più bui, aggressioni e prostitute smembrate nei sacchi dell’immondizia. Un’opera ormai riconosciuta come fondamentale e certamente insuperata nella loro discografia, in grado di sintetizzare due anime simili ma di certo non identiche – quella del thrash più velenoso e barbaro e quella dell’allora nascente movimento death – in una miscela tanto feroce quanto calibrata.
Freddi come una lama di coltello insinuatasi tra le costole o una canna di pistola spinta a forza in gola, i nove brani confezionati sotto la supervisione del ‘solito’ Scott Burns immortalano la band di Phil Fasciana all’apice della forma e della consapevolezza; una line-up da infarto che, rispetto al già ottimo “The Ten Commandments”, vede Rob Barret (Solstice, futuro Cannibal Corpse) imbracciare la sei corde al fianco del leader maximo – andando così a formare una delle coppie d’asce migliori del genere – e Brett Hoffman (R.I.P.) rendersi protagonista di una performance al microfono ancora più selvaggia e brutale, settando dei parametri di intensità che nel corso di quell’anno (siamo nel 1992) soltanto i compagni di etichetta Deicide sapranno eguagliare e superare. E sono proprio le chitarre, unite alle metriche invasate del compianto frontman, le vere protagoniste del disco, in un tour de force di soluzioni che, incalzate da una sezione ritmica a dir poco stoica e implacabile, si susseguono con fare chirurgico dall’inizio alla fine della tracklist, senza lasciare all’ascoltatore il tempo di riprendersi dai colpi appena ricevuti. La base di partenza, come detto, è un death/thrash che trova negli Slayer, nei Morbid Angel di “Altars of Madness”, nei Massacre e nei Kreator il bacino da cui attingere praticamente tutte le sue soluzioni, estremizzandole però al punto da far acquisire al songwriting una personalità unica e definita nello scenario dell’epoca.
Un suono che non può vantare l’estro e l’eleganza di quello di alcuni colleghi passati per i Morrisound Recording, ma che bypassa agevolmente il problema imbastendo un gioco di incastri perfetto e meticoloso nella sua furia omicida. Basterebbe ascoltare anche solo distrattamente la suddetta opener, o proseguire con le successive “Systematic Execution” e “Slaughter of Innocence” (i titoli sono tutto un programma!), per accorgersi di come riff, stop’n’go, assoli, rallentamenti… ogni elemento si inserisca in un flusso che, nonostante la mole di spunti e il quoziente tecnico di certo non banale, risulta sempre e comunque catchy e digeribilissimo. Un regime di violenza urbana che la doppietta “Coronation of Our Demise” / “No Flesh Shall Be Spared”, complessa e articolata come nient’altro nell’ancora giovane carriera del gruppo, porta a compimento in un susseguirsi di spasmi e raptus, scariche di blastbeat assassini e digressioni schiacciasassi, semplicemente irripetibile, a sua volta figlio del temperamento non proprio lineare dei musicisti coinvolti (la cui fedina penale, lo ricordiamo, non è mai stata pulitissima).
A fronte di quanto scritto, è impossibile non vedere in questi trentaquattro minuti di carneficina l’essenza stessa di un certo tipo di death metal, americano e non. “Retribution” è semplicemente leggenda, punto.