7.0
- Band: MANGOG
- Durata: 00:45:43
- Disponibile dal: 09/01/2017
- Etichetta:
- Argonauta Records
- Distributore: Goodfellas
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Buon esordio sulla lunga distanza per i Mangog, band costituita da un paio d’anni, e che prima d’ora aveva dato alle stampe solo un breve EP. I membri della formazione, non proprio alle prime armi, provengono dal sottobosco doom e dintorni del Maryland; sebbene si possano forse citare i soli Iron Man di Al Morris III come band di rilievo, per una precedente militanza dal parte del batterista, se non altro per la carriera ormai quasi trentennale e per la notorietà data dall’appartenenza al roster Rise Above. Pescati in questo caso con buon orecchio dalla nostrana Argonauta Records, i quattro musicisti sono dediti, guarda caso, a un doom metal d’altri tempi, senza fronzoli, aggettivi, derive e altri ammenicoli: “Mangog Awakens” sarebbe potuto serenamente uscire nella prima metà degli anni Ottanta e non stonare, anche se avrebbe rischiato di finire nel dimenticatoio, come nel caso dei connazionali Saint Vitus o Pentagram. E invece i Mangog si affacciano su un mercato assai saturo combattivi e capaci: riff all’odore di zolfo e una batteria cadenzatissima caratterizzano l’intero lavoro, con due ottimi punti di forza e di personalità; parliamo della caldissima voce di Myke Wells, e del grande tocco chitarristico di Bert Hall Jr., capace di trasmettere grandi sentori di Sud degli States, area di cui Baltimore è del resto una capitale culturale e musicale. Perfetto esempio di questa tendenza – forte anche di parecchi richiami alle chitarre di Pepper Keenan – sono l’iniziale “Time Is A Prison”, “Meld”, oppure “Modern Day Concubine”, ove fa capolino anche un efficace filtro vocale. I pezzi più cadenzati rimandano invece a esempi di doom d’annata più europeo, diciamo a metà strada tra i Count Raven (“Of Your Deceit”) e i Candlemass meno teatrali, come per esempio nella lunga e maestosa “Ab Intra”, forse l’highlight dell’album assieme a “Into Infamy”, che riporta alla mente Sua Maestà Bobby Liebling nelle belle linee vocali; o ancora “Daydreams With Nightmares”, forse perfetta sintesi del loro sound. E sempre a proposito di Maestri, vi lasciamo scoprire da soli a quale canzone dei Black Sabbath sia in parte ispirato il bell’assolo di “A Tongue Full Of Lies”. Complessivamente, insomma, l’album non presenta particolari cadute di livello; l’unico, relativo limite sta forse nell’elenco di riferimenti di cui sopra: ma chi non richiama i mostri sacri, specie in un genere come il doom, spesso restrittivo? i Nostri non mancano comunque di personalità, e si gode di questo lavoro per parecchi ascolti. Oltre al fatto che la loro duplice anima, a tratti più bluesy, spesso più sulfurea, lancia ottimi segnali per un futuro decisamente interessante e variegato.