8.0
- Band: MANILLA ROAD
- Durata: 01:38:31
- Disponibile dal: 13/02/2015
- Etichetta:
- Golden Core Records
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Il nuovo album dei Manilla Road è, probabilmente, il loro lavoro migliore dai tempi di “Voyager” e già questo dato dovrebbe rendere felici i fan degli epic metaller americani. La band di Wichita, capitanata dall’inossidabile Mark “The Shark” Shelton, continua il suo lunghissimo percorso, iniziato nel 1977, innovando il loro sound, come hanno saputo fare in ogni singola release, senza abbandonare il loro stile inconfondibile e unico, che porta i Manilla Road ad essere uno di quei gruppi che si ama o si detesta. Si apre con la title-track, che vede Shelton al microfono e la sua voce particolare e smaccatamente americana che si intreccia ad un riff potente e trascinate, alternanto ad un arpeggio nel tipico stile della band, fino all’immancabile solo dello Squalo, dove le note scivolano come sulla seta e completano il quadro del tipico pezzo del four-piece. E’ evidente fin da subito che i metallari con la faccia da hippy sono in gran forma, anche se – per questa volta – hanno deciso di abbandonare le amate saghe nordiche per dedicarsi ad una sorta di concept su Gilgamesh e sulla mitilogia sumera. Mark Shelton e Bryan “Hellroardie” Patrick si alternano alla voce, come avviene da anni, e ricostruiscono la magia dei padri (più o meno consapevoli) dell’epica metal. Una canzone come “Tomes Of Clay” è uno di quei classici pezzi alla Manilla Road: lungo, ostico, con atmosfere rarefatte, evocative, ossessive e cupe, che sanno, poi, aprirsi alla maestosità ed alla potenza. Le antiche glorie vengono rievocate dai vecchi bardi: basta chiudere gli occhi e le rovine di Ninive compaiono dalle sabbie, mentre ci troviamo al fianco di Gilgamesh a scrutare i confini del mondo. Gli americani, però, sanno picchiare quando decidono (come in “Kings Of Invention”), ma la voce cantilenante è un legame continuo: una luce che illumina la notte e ci guida verso antiche civiltà, raccontandoci di dei, re, guerrieri; il cantore che la notte, attorno al fuoco, racconta e rapisce, sia che sia quella ipnotica di Mark sia che si tratti di quella più potente di Bryan, come in “Luxiferia’s Light”. E’ con l’avvolgente e maestosa “The Muses Kiss” che i Manilla Road si accomiatano da noi, regalandoci l’assolo più struggente dell’intero disco. A dire il vero, la band non si accomiata del tutto, ma si “limita” a terminare il primo dei due dischi che compongono questa release. Considerare “After The Muse” come un bonus CD sarebbe ingiusto, ma iniziamo a dire che lo è per quanto riguarda il prezzo; quindi se alcuni dei fan della band potrebbero non gradire del tutto questo addendum, potranno tranquillamente ignorarlo. La peculiarità del secondo CD è che, sebbene quelli che suonano siano i Manilla Road, lo stile è totalmente diverso ed assolutamente non-metal. Si tratta di una sorta di rock americano decisamente seventies, con qualche influenza country/southern (pensate agli Eagles o a Neil Young o ai The Dobbie Brothers) e… solamente di ballad. Qualcosa che, probabilmente, Shelton trasporta con se da tempo e che comunque aiuta a capire da dove siano nate certe sonorità della band. La peculiarità è che un pezzo come “Reach”, arrangiato e suonato in modo diverso, potrebbe essere tranquillamente un pezzo dei Manilla Road. Una piccola concessione al metal c’è anche in “After The Muse”: “All Hallows Eve”, proposta in ben due versioni, una reharsal del 1981 ed una incisa appositamente per questa release. Due suite ipnotiche da 10 e 15 minuti che (sopratutto nella versione più moderna) costituiscono il ponte tra le influenze di rock, country e psichedelia e le espressioni epic metal in cui si sono evoluti i Manilla Road; si sente quello che sarebbe diventato il sound dell’epoca d’oro della band (da “Metal” a “Mystification”). Alla fine del lungo ascolto, ammettiamolo, si resta quasi stremati, come sempre accade con i lavori dei Manilla Road; perché Mark Sheldon non è un musicista immediato, la sua musica – come la sua voce – si fa strada lentamente, attraverso sentieri contorti e faticosi. Questo, probabilmente, è il motivo per cui la band non ha mai conosciuto un successo dirompente. Non tutti hanno la pazienza e la costanza necessarie ad apprezzare il sound dei Manilla Road ed alcuni li trovano semplicemente noiosi. Noi, come Fenriz, abbiamo venduto l’anima ai Manilla Road, una band che riesce ad incarnare in pieno lo spirito dell’epic metal e, contemporaneamente, a suonare qualcosa che è quasi indefinibile, che arriva da lontano e, con miti e leggende, ci parla dei tempi antichi, della nascita delle epoche degli eroi ed, in una certa misura, ci racconta la nascita della musica metal, riuscendo – in ogni disco – a partire da un materiale lontano dalle sonorità heavy ed a plasmarlo, proprio come se, ogni volta, fosse la prima, come se il vecchio Squalo, ad ogni accordo, si rendesse conto che sta riuscendo a forgiare quella musica metal che da giovane ha deciso di inseguire.