MANOWAR – Battle Hymns

Pubblicato il 11/10/2019 da
voto
9.5
  • Band: MANOWAR
  • Durata: 00:36:08
  • Disponibile dal: 06/08/1982
  • Etichetta:
  • Liberty Records

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All’esordio dei quattro Guerrieri americani manca davvero poco per essere perfetto, e quel poco viene compensato dall’incontrovertibile valore storico che questo disco possiede. Certo, i Manowar sono uno di quei gruppi che o si amano o si odiano, ma se siete tra coloro che non riescono ad andare oltre i mutandoni di pelo, la spocchia e il machismo dei Nostri allora molto probabilmente non state leggendo queste righe (e di heavy metal non ne capite una cippa, senza dubbio). Queste otto tracce gettano le basi liriche e sonore per ciò che nei dischi successivi verrà sviluppato, ampliato e rifinito, e poi ancora copiato e caricaturizzato, ma questa è storia recente e per fortuna oggi non ci compete. Nonostante le piccolissime ingenuità che è lecito aspettarsi da una formazione giovane e alla prima prova discografica, “Battle Hymns” è un album che suona Manowar al 100% e che non conosce momenti morti. La tripletta iniziale ci regala un heavy metal duro e grezzo, fortemente influenzato dall’hard rock della decade passata, cui i (futuri) Re del Metal uniscono quell’energia punk che ha reso altrettanto fresco e meraviglioso un altro storico debutto, quello degli Iron Maiden (e del resto, il chitarrista Ross The Boss viene dai The Dictators, storica formazione proto-punk/hard rock attiva dai primi anni ‘70).
Andiamo con ordine: “Death Tone” è un brano ritmato, fragoroso e catchy come tre quarti di questo lavoro, che descrive la vita ai limiti della legge di un reduce del Vietnam, tra motociclette, sussidi di disoccupazione e qualche soggiorno in prigione. C’è una rabbia sociale appena accennata ma chiarissima (“Tu te ne stavi seduto a casa e io sono stato mandato in Vietnam / Io sono andato in gatta buia e tu al lavoro”) che si esplicita perfettamente in “Shell Shock”, uno dei brani migliori e curiosamente più sottovalutati dell’album, nel quale il ritmo rallenta ma non perde un grammo di incisività. La particolarità più interessante è proprio il fatto che per la prima (e unica) volta il tema della guerra è affrontato in maniera drammaticamente reale, anche se in qualche modo stemperato da un’ironia amarissima: “Il taglio di capelli non si paga / E le pallottole arrivano gratis / Lo Zio Sam ha inviato una lettera che dice / che ha una missione per me”). E’ una scrittura diretta, tanto semplice da risultare quasi elementare, e forse anche per questo colpisce dritto allo stomaco quando l’ugola di Eric Adams grida “E’ divertente andare in giro con la mia auto / Guidavo un carro armato e sparavo con la mitragliatrice / So di essere a casa / Ma mi sento finito”.
A parte questa eccezione, la prima parte del disco, che comprende il cosiddetto ‘lato A’ più il primo pezzo del ‘lato B, è una dichiarazione di intenti, muscolare e anthemica, che afferma un’ideale di vita fatto di bevute, vagabondaggio sulle due ruote, facili conquiste e naturalmente heavy metal tanto rumoroso quanto è possibile (non a caso i Nostri entreranno nel Guinness dei Primati per i volumi più alti registrati ad uno show, battendo il precedente record dei Motorhead). Su tutte è impossibile non citare il classicissimo “Manowar”: anthem irresistibile e potentissimo che allude anche alla nascita della band, avvenuta durante il tour di “Heaven And Hell” dei Black Sabbath, quando l’allora roadie degli inglesi, il bassista Joey DeMaio, incontra Ross The Boss, all’epoca chitarrista del gruppo di apertura (gli Shakin’ Street), e insieme decidono di dare vita alla heavy metal band americana più ignorata in patria della storia. Il sound e l’immaginario dei guerrieri nemici del false metal hanno infatti da sempre attratto molti più fan in Europa, mentre i metalkids americani sono rimasti – neanche troppo curiosamente – un po’ freddini davanti alla chiamata alle armi.
Arriviamo così all’ultimo quarto di questo lavoro, che con “Dark Avenger” segna un deciso cambio di atmosfere: il cielo si è fatto plumbeo e una macchina del tempo ci catapulta in un passato lontano. E’ il primo ruggito propriamente epic metal della band, un lungo brano oscuro e cadenzato, che vede la partecipazione di Orson Welles in veste di narratore nel fraseggio centrale, per poi acquisire spinta e terminare in un boato di velocità e distruzione. I Manowar uniscono l’epicità dei Rainbow all’heavy metal sulfureo dei Judas Priest (“Beyond The Realms Of Death”) in una rielaborazione personalissima e decisamente riuscita. “William’s Tale” inaugura il tradizionale assolo di basso, strumento che è comunque sempre in primo piano, e funge da apripista per quello che è il capolavoro del disco (e non solamente): le prime note di “Battle Hymn” sono da pelle d’oca e l’intero brano è un crescendo emozionale con un cuore sognante. Anche a trentasette anni di distanza non possiamo fare altro che emozionarci e cantare le gesta di questi diecimila eroici guerrieri come se facessimo effettivamente parte dell’armata. E’ una narrazione romantica della guerra, un tipo di scrittura che diverrà il trademark dei Nostri, così abili nel coinvolgere l’ascoltatore e trasportarlo in un Medio Evo immaginario. Se “Dark Avenger” e “Battle Hymn” sono in qualche modo l’archetipo di – rispettivamente – due capolavori futuri come “Into Glory Ride” e “Hail To England”, l’intero disco necessita di essere riscoperto perché rappresenta l’ottima prova di una formazione al pieno delle proprie capacità ed energie, oltre che il primo capitolo di una saga dal valore ineccepibile per tutti i formidabili anni ‘80.

TRACKLIST

  1. Death Tone
  2. Metal Daze
  3. Fast Taker
  4. Shell Shock
  5. Manowar
  6. Dark Avenger
  7. William's Tale
  8. Battle Hymn
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