9.0
- Band: MANOWAR
- Durata: 00:33:13
- Disponibile dal: /07/1984
- Etichetta:
- Music For Nations
- Distributore: Audioglobe
“I Manowar? Ah, sì, quelli del costume di pelo. I Manowar? Come no, quelli del true metal, che firmarono il contratto col sangue e che salgono sul palco con le motociclette rombanti, quelli che fanno un casino infernale perché, sotto sotto, sono degli italianacci di New York, che si divertono nella caciara”.
Questo è sostanzialmente il quadro che il seguace medio del metallo fa di questa band. Volendo scendere nel dettaglio, tutte le uscite contraddittorie accennate non sono altro che un mero (ed efficace) espediente pubblicitario: la classica trovata ad effetto. I Manowar di oggi sono un circo, enorme, strutturato su quello messo in atto dai Kiss nell’ultimo quarantennio: ecco, allora, che andarsene in giro ‘pellevestiti’ e ‘borchiemuniti’ rappresenta quello che è il loro abito di lavoro, non serioso come una divisa ufficiale, ma pittoresco e distintivo come le tute dei Ghostbusters. E’ facile, quindi, capire perché dividano così radicalmente il pubblico metal: impongono di schierarsi e, il più delle volte, la gente ci ‘casca’. C’è chi crede mantengano la purezza del verbo, ovvero i sostenitori, e chi – come i detrattori – crede ci prendano unicamente per il culo (pregiato francesismo, ndA). A noi, narratori specializzati, tocca diradare questi fumi scenici e vedere attraverso la nebbia dell’ovvio: i Manowar sono un gruppo metal che ha avuto successo ed ha saputo letteralmente come “investirlo” in termini di pubblico e fan; se è vero che ormai tutto ha il sapore plasticato di una pietanza da centro commerciale, è parimenti vero che le loro performance live raramente si assestano sotto livelli soddisfacenti, a testimonianza di come ‘lavorino duramente’. Nel frattempo hanno pubblicato anche dei dischi, che riflettono il cammino mediatico della band: se agli inizi i misconosciuti Manowar ne hanno prodotti tre di purissimo heavy metal, dalle forti tinte epiche (troviamo, ad ogni modo, che l’epic metal tout-court sia qualcosa di differente), seguiti da un album di raccordo come “Sign Of The Hammer” (che mostra le prime derive rock’n’roll), i tre successivi sono stati concepiti come un prodotto più universale, sempre qualitativamente alto, ma rivolto a una fetta di pubblico più ampia. Giunti tra le band metal di maggior successo, hanno poi iniziato la fase di gestione, fatta di live, DVD e dischi da mestieranti, ovvero gente che scrive (più o meno) tre canzoni ‘fighe’ su una dozzina e vi vende il disco a colpi di slogan. Viene da chiedersi come siano state gettate le fondamenta di un tale impero, visto come – in casi del genere – una tale questione passi in secondo piano: una plausibile risposta sta nella qualità dei primi sette lavori, in particolare i primi tre, di cui abbiamo scelto “Hail To England” come manifesto. Difficilmente non conoscerete questo disco, fosse solo per la sua fama, dunque non vi staremo a dire cose come ‘la linearità delle strutture si specchia nell’approccio ritmico dritto’ oppure che ‘Eric Adams canta da Dio’, né che ‘le chitarre sono così e cosà’. Semplicemente ve ne racconteremo l’umore, il contenuto emotivo, che dopo quasi trent’anni arde ancora: se vi va di coglierne l’aspetto poetico, ascoltando “Hail To England” non vi sarà difficile intraprendere un viaggio mentale che vi porti dalle parti della Cimmeria (mitica terra di “Conan il Distruttore”, per chi non fosse informato). Le canzoni sono tutte estremamente ispirate e ben scritte, tanto da riuscire a rendere perfettamente un epos pragmatico e affatto concettuale (come quello ravvisabile nei lavori di Manilla Road o Cirith Ungol, per esempio), pazienza se le tematiche sono discutibili o improbabili, perché sarebbero solo due delle possibili accezioni in cui l’heavy metal risulta ridicolo, specialmente presso l’opinione pubblica o chi, magari, dimentica che principalmente si tratta d’intrattenimento. Stando a questa chiave di lettura, è possibile approcciare in maniera proficua “Hail To England” e trarne le emozioni che gli sono state impresse: ecco, allora, che il senso dei primi due pezzi è di evidente celebrazione; se “Blood Of My Enemis” è l’ode del guerriero ai compagni caduti in battaglia, fatta il mattino presto, con i polmoni pieni di nebbia e il cuore di nostalgia perché faccia a faccia con pensieri e ricordi, allora “Each Dawn I Die” è una danza di guerra, propiziatoria e completa di consulto oracolare (cui si fa cenno nel testo), che fa crescere la tensione. In tale contesto, la dichiarazione di guerra è “Kill With Power”, una marcia con le armi sguainate e l’inno in bocca ad esaltare il morale (faccenda concettualmente non molto diversa dalle cantilene dei Marines di “Full Metal Jacket”, quando corrono capitanati dal sergente maggiore Hartman). Si può ben parlare, quindi, di autocelebrazione, ribadita nella title-track, arrembante trasposizione dell’approdo e del saccheggio, con conseguente esaltazione da conquista, raffigurata in suggestivi break corali. Ora che la guerra è stata fatta e vinta, resta da instaurare il nuovo regno ed i Manowar lo fanno nella coinvolgente e ruffiana maniera con cui ci hanno abituato: “Army Of Immortals” è la celebrazione finale, quella degli eroi e del popolo, ovvero l’immensa mole di fanatici della band, letteralmente pronti a tutto per darle supporto e seguirla. Non è un caso che la forma del pezzo sia un po’ più leggera, così da costituire un vero e proprio inno da stadio. Esaurito il solo ‘pasticciato’ che risponde al nome di “Black Arrows Of Death”, in ossequio alla tradizione tutta Manowar di inserire una volgare esibizione d’istrionismo per disco, l’opera si conclude con “Bridge Of Death”, forse il miglior pezzo mai scritto dalla band (insieme a “Guyana”). Un arpeggio gelido e malinconico prelude agli ultimi pensieri del guerriero che, nell’istante estremo, si lascia alle spalle un’intera vita, per consegnarsi agli dei guerrieri che ha servito e che, confusamente, fanno capo a Satana in persona (altro ossequio ai cliché metallici). Il momento dell’incontro, però, è da brivido: un riff marziale e cadenzato accompagna il fiero canto del guerriero che – attraversando il “ponte della morte” – declama con orgoglio i suoi eroici conseguimenti in un climax sempre più teso, fino alla rassicurante esplosione di ‘coattesimo’ in cui il guerriero si offre a Satana, facendo ribollire tutti gli inferni di una magnificenza quasi cinematografica.
Cala il sipario, lo spettacolo si conclude, tutti a casa: avete sperimentato l’apice della prima fase della carriera dei Manowar (per noi anche l’apice assoluto).