9.5
- Band: MANOWAR
- Durata: 00:40:26
- Disponibile dal: 15/10/1984
- Etichetta:
- Ten Records
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Nella storia, ci sono diversi album che possono vantare di aver creato dei veri e propri simbolismi e/o dei marchi di fabbrica di una band o, nei casi più celebri, di un intero genere. Tuttavia, riteniamo che nella scena metal siano pochi i simboli che possono eguagliare il celebre e inconfondibile martello alato, divenuto nel corso degli anni una sorta di vero e proprio vessillo per una foltissima schiera di estimatori, accomunati da una caratteristica ben definita: l’amore assoluto per una delle formazioni più seminali e controverse di sempre, la cui forza più grande risiede nella capacità di riunire sotto la propria aura tutti coloro che sono stati stregati dal loro heavy metal epico, battagliero e inossidabile.
Parliamo naturalmente dei Manowar e del loro quarto album “Sign Of The Hammer”, la cui copertina è divenuta una sorta di guida in numerose battaglie per gli estimatori di tutto il mondo, come voluto anche dal ritornello della immortale titletrack. “Sign Of The Hammer, Be My Guide!“: queste sono le parole da cantare rigorosamente con le braccia rivolte verso il cielo, unite nel famoso gesto che, di fatto, ha sostituito le più classiche corna quando si parla della leggendaria formazione guidata da Joey DeMaio, ma rappresentata sul piano vocale da quello che, a parere di molti, è il più grande cantante della storia metal, ovvero l’unico e inimitabile Eric Adams, che qui riesce davvero a far tremare vetri e pareti a forza di acuti.
Musicalmente parlando, l’epic metal in quel periodo era già un movimento definito, soprattutto oltreoceano (anche se non mancavano le formazioni europee), e i Manowar stessi lo hanno interpretato in più di un modo nei loro primi lavori: il qui presente “Sign Of The Hammer” parte da quanto raggiunto nel predecessore “Hail To England”, incrementando ulteriormente il tasso adrenalinico e, nel contempo, esaltando il lato evocativo più evidente nell’oscuro “Into Glory Ride”; il tutto tenendo ben salda la spada tra le mani e non lesinando su quel minimo di auto-celebrazione già presente nell’esordio “Battle Hymns”. Il risultato è un perfetto album d’intrattenimento, con però vette introspettive innegabili e in grado di motivare un ascoltatore in cerca di un simbolo cui attribuire un significato positivo.
Non riteniamo ci sia davvero bisogno di ripercorrere la scaletta nella sua interezza, ma possiamo ribadire con sommo piacere quanto, pur facendo quotidianamente i conti con lo scorrere del tempo, queste otto tracce continuino imperterrite ad accompagnarci ogni qualvolta dinnanzi a noi si palesi un qualsivoglia ostacolo. Dal rockeggiante inizio con “All Men Play On 10”, passando per il martellante inno al dio del tuono “Thor (The Powerhead)”, fino alla lunga conclusione con la più lenta “Guyana (Cult Of The Damned)”, tutto appare come un perfetto compromesso in cui spiccano riff e assoli tanto semplici quanto granitici, atmosfere bellicose e toccanti allo stesso tempo e, soprattutto, tematiche che elogiano come prima cosa l’esaltazione di se stessi e la propria forza interiore, unita alla caparbietà necessaria per continuare a lottare, anche quando ogni luce di speranza sembra essersi spenta.
Volendoci soffermare un po’ di più su un pezzo specifico, a prescindere dallo scetticismo di molti detrattori, non si può negare quanto il brano “Mountains”, anche più di tutti gli altri, nel suo incedere riflessivo rappresenti la summa perfetta di ciò che si intende con ‘poeticità metallica’, anche grazie a quel chorus da trascrivere a caratteri cubitali su una parete di casa, in quanto sono proprio quelle le parole che dovrebbero risuonare nella mente di chi si sente sconfitto, magari ingiustamente, in una qualsivoglia situazione della vita. Se poi pensate che a interpretarlo è Eric Adams con i suoi virtuosismi, ogni altra considerazione diventa superflua.
Non dimentichiamoci che parliamo pur sempre di un disco heavy metal, che in quanto tale è giusto che sappia divertire: a questo provvedono molto i vagiti selvaggi di “Animals”, in cui si avverte anche una punta di hard rock, e le ritmiche devastanti di “The Oath”, che a parer nostro è forse uno dei pezzi più sottovalutati dell’intero repertorio dei Manowar, con il guitar work grintoso e catchy di Ross The Boss e la batteria a rotta di collo del compianto Scott Columbus a fungere da motore trainante, insieme all’ugola inconfondibile di Eric e ai rintocchi del basso di Joey. Quest’ultimo si rende ulteriormente protagonista nella strumentale “Thunderpick”, che possiamo comprendere possa risultare stucchevole a molti ascoltatori, ma personalmente ammettiamo senza vergogna che si tratti di una divertente parentesi dedicata allo shredding più tamarro sulle corde del basso, da ascoltare senza il cervello particolarmente acceso e con una buona dose di simpatia.
Non entreremo nel merito delle vicissitudini più recenti avvenute in casa Manowar, ma guardando un po’ all’indietro continuiamo a notare un pezzo fondamentale della storia, del sound e dell’attitudine heavy metal, che in quest’album appare viva e autentica come non mai, al punto tale da renderlo un vero capolavoro che dovrebbe trovare posto nella collezione di ogni appassionato degno del nome, insieme ai tre predecessori e a gran parte di ciò che verrà dopo. Anzi, a titolo personale riteniamo che fino a “Gods Of War” ai Manowar si possano fare poche critiche sul versante musicale, e se ancora oggi ci piace metterci in viaggio per assistere a uno dei loro concerti, capite bene il ruolo che le loro composizioni hanno ricoperto nella vita di molti di noi.
Possono senz’altro avere i loro difetti e i loro detrattori, ma a ben pensarci va benissimo così. Del resto, questi sono i Manowar e questo è l’heavy metal!