7.0
- Band: MANTAR
- Durata: 00:23:58
- Disponibile dal: 26/06/2020
- Etichetta:
- Brutal Panda Records
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Escamotage buono per tenere caldo il nome di un gruppo quando non si ha materiale fresco fresco da pubblicare, un album di cover è visto giustamente con sospetto dal pubblico. La nomea di riempitivo è sovente meritata, perché hai voglia a parlare di regalo per i fan, quando si propone l’ennesima versione di un grande classico del passato, apportando modifiche minime all’originale. Fortunatamente, nel panorama underground si coglie un’ammirevole cura anche per questo tipo di uscite, così se proprio si vogliono fare delle cover, si ha almeno il buongusto di proporre un campionario non scontato. È quanto puntualmente prodotto dai Mantar, che vanno a omaggiare influenze della loro giovinezza non propriamente attese da una realtà di sludge metal massiccia e sfrontata come la loro. L’EP “Grungetown Hooligans II” comprende infatti nomi cari all’alternative/grunge/punk dei primi anni ’90, ciò che passava come ‘musica dura’ sui canali di MTV e ai quali si abbeveravano gli allora adolescenti di Amburgo. Va immaginato il contesto nel quale attecchiva un messaggio del genere: una grigia città tedesca nei primi anni della riunificazione, l’America ancora lontana e mitizzata e questi video accattivanti, la musica pesante ma melodica e vagamente accessibile, a riecheggiare nelle menti di giovani dalla fervida immaginazione come Erinc (batteria/voce) e Hanno (voce/chitarra). La rivisitazione dei brani è qualcosa di sentito, un gesto sentimentale, che ha il pregio di avvicinare a formazioni misconosciute (Babes In Toyland, Mazzy Star) o iconiche per taluni suoni (Sonic Youth, The Jesus Lizard, Mudhoney), dando nel contempo l’idea di quanto trasversali siano state le influenze del duo tedesco. Una caratteristica trasmessa all’interno di una discografia, quella dei Mantar, finora messasi in luce per una discreta ampiezza di vedute e una piacevole difficoltà nello stabilire i confini di genere.
Lungi dall’essere un’operazione imprescindibile e di chissà quali significati, l’EP offre quello che promette, tanto contagioso divertimento e un’atmosfera simpaticamente rumorosa come poteva essere quella vissuta dai due esuberanti ragazzi tedeschi negli anni ’90. I Mantar vengono a patti con i brani coverizzati spogliandosi della componente più truce, corrono indietro verso un piglio rock’n’roll contaminato messo un po’ da parte dopo il fulminante esordio “Death By Burning”. La riconoscibilità stilistica la dobbiamo alla caratteristica grumosità della chitarra e alle urla roche di Hanno, perché l’intento non era a quanto pare quello di trasfigurare le canzoni affrontate. Le otto tracce in scaletta convincono un po’ tutte, sta poi essenzialmente alle preferenze del singolo dire quali siano quelle un pizzico più brillanti delle altre. Traggono giovamento da questo restyling le composizioni delle ‘riot girl’ L7, omaggiate con due adrenaliniche versioni di “The Bomb” e “Can I Run”, così come provoca sconquassi il corrosivo macello messo in piedi per “Puss” dei The Jesus Lizard. Ottimo il compromesso fra rumore, melodia e blues andato a male di “100 Percent” dei Sonic Youth, “Ghost Highway” e il suo solismo ardente aprono le porte a una band che, per chi scrive, era totalmente ignota e la presentano come meglio non si potrebbe; e via ancora di sguaiatezza e crepitanti riff rock’n’roll per “Bruise Violet”, altro ripescaggio sintomo di una cultura rock profonda e poco allineata. Il punk quasi da stadio di “Who You Drivin Now” e un’altra controllata baraonda ‘al femminile’ (“Knot” delle 7 Year Bitch) chiudono un disco che nella sua semplicità e nella genuina foga con cui è affrontato fa il suo con pieno merito. Per soli fan accaniti dei Mantar, ma senza prese i fondelli.