7.0
- Band: MARCHE FUNÈBRE
- Durata: 00:58:12
- Disponibile dal: 20/02/2017
- Etichetta:
- BadMoodMan Music
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Guardando soltanto a nome della band, copertina e titolo dell’album, si potrebbe ritenere che i Marche Funèbre siano portacolori di un funeral doom comatoso, condensante un quantitativo di negatività e prostrazione difficilmente sopportabile se non si è provetti cultori della materia. La realtà è difforme, i cinque belgi non suonano poi così ‘inquietanti’ o respingenti nei confronti di un medio ascoltatore di metal estremo. E non sono nemmeno così tanto di nicchia quanto a genere/i di competenza, perché di fatto il viaggio intrapreso nelle sonorità oscure, dolenti, attraversate da commiserata lentezza, si snoda fra istanze di varia derivazione, aventi in comune un tocco old-fashion chiaramente novantiano. Possiamo etichettare il combo, qui al terzo album, quale un innamorato – ancora in fase di obnubilata infatuazione – del gothic-doom inglese di Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride, al quale si unisce una gestione dello sforzo e una conformazione chitarristica più devota al classic doom. Un tratto comune dell’intera tracklist è l’eclettismo, non tanto per quanto riguarda la presenza di suggestioni esotiche o percezioni emotive inaspettate, quanto per un susseguirsi di sezioni sì legate al comune concetto di doom, ma che spaziano fra intorbidamenti funesti, fino a tramutare le chitarre in melma, cavalcate impetuose e trasognanti vagheggiamenti nella malinconia. Death, doom, preziosismi gothic metal, sporadici sfregi black metal si intervallano fuori da schemi predefiniti, i Marche Funèbre non hanno timori, cercano una propria strada e, pur facendo facilmente intuire chi li abbia ispirati, conducono in porto un disco molto sentito e vissuto. I belgi si comportano meglio quando ricercano la solennità oppure si dedicano a partiture classic metal, i ritmi battenti e le bordate metal spicce, quelle elargite al solo scopo di sospingere ed esaltare, sono condotte con acume e sicurezza. Nell’attimo in cui si passa al tinteggiare un’atmosfera sospesa, letteraria ed enfatica, si rilevano alcuni limiti espressivi, rinvenibili nello specifico nel pulito fin troppo teatrale di Arne Vandenhoeck, che ha una discreta versatilità e fantasia nel delineare le linee vocali, ma non è l’interprete ideale per tutte le situazioni. Diciamo che compensa col cuore i difetti di estensione e una percezione non sempre corretta di quello che dovrebbe essere l’approccio migliore rispetto alla musica. Anche sul piano strumentale vi sono a volte delle incongruenze e una tendenza ad ‘allungare il brodo’ , inserendo divagazioni non necessarie, che appesantiscono la fruizione dei brani. Smagliature compensate da un lavoro chitarristico di ampio respiro, che immette fervore, tragicità e passione non caricando i toni in misura esagerata, coadiuvato da trame percussive avvincenti e, anche in questo caso, ritagliate perfettamente sull’esigenza espressiva dei brani. Nel complesso il giudizio finale su “Into The Arms Of Darkness” è positivo, i Marchè Funèbre si collocano a cavallo di extreme doom e un versante più morbido del metal del dolore con discreto estro, costituendo una valida alternativa ai nomi più quotati del settore.