MARILLION – Script For A Jester’s Tear

Pubblicato il 11/04/2015 da
voto
9.0
  • Band: MARILLION
  • Durata: 00:45:40
  • Disponibile dal: 14/03/1983
  • Etichetta:
  • EMI

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Era il 1983. Anno figlio di una decade oscura e fratello di periodi bui e grigi dal punto di vista sociale e politico. La guerra fredda sembrava dare segni di distensione ma erano ancora lontani i venti epocali di un disgelo tra le due super-potenze mondiali. In Inghliterra il Tatchterismo culminava in un periodo di complessi scontri tra lavoratori, sindacati ed istituzioni. Era il 1983. Anno di edonismo, Reaganesimo, vuoto, grigiore, molta forma e poca sostanza, arrampicatori sociali, tanta eroina e poca immaginazione. Musicalmente, un periodo dove il punk stava conoscendo la sua parabola discendente e dove l’esplosione della NWOBHM non sarebbe durata solo un momento, ma avrebbe messo radici. Era il 1983. Anno che per molti amanti di certe sonorità sarà celebrato come momento di rinascita dalle ceneri di un genere musicale che negli anni Settanta aveva sancito il proprio suicidio. Questo genere è il rock progressivo, che con la sua pomposità e magniloquenza, a volte forzata, si era scavato la fossa. Corrente musicale, forse la più pura ed intransigente per coerenza artistica, che le case discografiche hanno voluto trasformare in fenomeno da baraccone popolar-qualunquista. Il 1983 per molti fan è l’anno della rinascita. Questa avviene grazie all’uscita di “Script For A Jester’s Tear”, album di debutto di una band che fino a qualche tempo prima aveva destato scalpore solo nel Regno Unito per la teatralità dei propri live e per alcuni singoli di sicura valenza artistica: i Marillion. Nati nel 1978 nella provincia inglese, in pochi anni diventano una delle band più interessanti della scena neo-prog britannica, e solo con l’ingresso dell’ istrionico e carismatico Fish alla voce si trasformano in quello che poi la storia e la memoria ricordano. Quattro album di intenso ed elegante progressive, ognuno con una propria identità musicale ben precisa, interpretati da una delle voci più affascinanti del panorama. Poi, dal 1987, con l’abbandono di Fish, i Marillion divennero altra cosa, con un progressivo (scusate il gioco di parole) abbandono di quelle sonorità che ne hanno sancito il successo artistico dei primi anni. La band che ha saputo donare nuova linfa e nuovo vigore ad una scena musicalmente arida. I soliti nostalgici detrattori del nuovo muovono alcune critiche: il quintetto inglese copia le gesta dei grandi maestri quali Genesis, Yes e Gentle Giant. Potrebbe essere vero, ma le influenze del prog Settantiano sono riviste e vestite con nuovi abiti. Più eleganti e moderni. Abiti personali che si adattano al carisma dei cinque musicisti. “Script For A Jester’s Tear” è l’emblema di questa trasformazione. La titletrack è uno stupendo affresco romantico. Una canzone d’amore, intimista e crepuscolare, che deflagra la sua tragicità ed epicità in improvvisi cambi di tempo e di umore grazie anche alle grandi intuizioni del chitarrista Steve Rothery, autore di partiture ricche di classe e gusto. La voce di Fish, nasale, teatrale, che sa destreggiarsi su toni alti e medi, con quel tipico accento arcigno da scozzese vero, è unica e regala emozioni ad ogni parola cantata, che sia sussurro, urlo o vocalizzo. Fish non solo canta, ma anche interpreta con passione e profondità emotiva ed ogni minuscolo gesto delle sue corde vocali sa colpire l’animo ed il cuore dell’ascoltatore. I testi ricchi di doppi significati, sillogismi e metafore sono vere e proprie poesie, dove con piglio critico ed allo stesso tempo sognante, viene descritta la società dell’epoca. “He Knows, You Know” è una canzone acida, che si apre con un arpeggio di chitarra strisciante e penetrante per poi evolversi in un incedere vocale e ritmico che non lascia respiro e soffoca ogni velleità pomposamente barocca, cara a stilemi e regole del Conservatorismo Canterburiano. Il susseguirsi delle atmosfere pregne di tensione arriva a concludere il pezzo in sincopati intermezzi ritmici abbelliti dai geniali arrangiamenti di pianoforte. La canzone più oscura dell’album, forse quella più lineare, ma non per questo, nella sua semplicità, grandiosa e stilisticamente perfetta. Melodie febbricitanti che scandagliano l’animo tribolato di una persona con seri problemi di tossicodipendenza. Un testo che denuncia il degrado di quel periodo in cui l’eroina mieteva migliaia di giovani vittime. “The Web” è un lungo viaggio paragonabile all’Odissea con tantissimi cambi di atmosfera e molte divagazioni strumentali, dove la proverbiale verve teatrale di Fish gioca sempre un ruolo fondamentale. Con la successiva perla, “Garden Party”, si cambia registro. Atmosfere più rilassate, quasi bucoliche. L’assetto della canzone si regge sulle stupende divagazioni di Mark Kelly che, ai tasti d’avorio, crea una delle canzoni più suggestive della carriera dei Marillion. Ancora una volta è la voce di Fish che si staglia prepotentemente su tutta la durata. Istrionica e scanzonata, l’interpretazione del gigante scozzese descrive con ironia e sarcasmo l’arrivismo di un ceto sociale, quello borghese, che si prende troppo sul serio, troppo edulcorato e rigido in regole dettate da una severa disciplina morale e politica, regole che vietano di godere appieno dei piaceri della vita. I cinque felloni sono presenti per rovinare questa festa in giardino e per burlarsi di quella società costruita sull’ipocrisia e su inconsistenti modelli di vita che all’epoca erano imperanti. La toccante e crepuscolare “Chelsea Monday” prosegue a livello lirico, quello iniziato in “Garden Party”, ma qui le parole ed il significato non sono più ironici. Si fanno più pesanti e seri. C’è di mezzo la fragilità di un ragazzo che si sente perso, smarrito in una società che non lo riconosce, che non sa capire i suoi sentimenti. In una famiglia che non lo comprende perché troppo impegnata ad arrivare al punto più alto della scala sociale. Il suicidio è forse la liberazione. In un lunedì. Il tutto descritto con un lento incedere in slow-motion costruito su un giro di basso sinuoso e vellutato e su sinistre e poco rassicuranti melodie di tastiera. In lontananza i feedback di chitarra sono come urla disperate, e da urla si trasformano nel più bel assolo che la storia del rock ricordi. “Forgotten Sons” chiude questo capolavoro. Una canzone che potrebbe riassumere musicalmente tutto ciò che i Marillion hanno fatto fino ad ora. Cambi di tempo repentini, pause, momenti di calma apparente, preghiere salmodianti, epicità, intenzioni quasi heavy: in “Forgotten Sons” c’è tutto l’universo Marillion. Una canzone ricca di tensione, una canzone dove la sezione ritmica spara, dove la voce di Fish è il megafono di una società stanca del sangue versato e di giovani uccisi in guerra. In tutte le guerre. Come la guerra in Irlanda del Nord, nella quale centinaia di figli dimenticati sono morti per uno scopo che nessuno ancora capisce e mai capirà. La canzone forse più rappresentativa dei Marillion, che ancora una volta usano la musica per denunciare ingiustizie e soprusi. La parte centrale, per carica emotiva e suggestiva, è da brividi. La preghiera laica recitata da Fish e poi l’esplosione in un milione di frammenti melodici fino all’incedere perpetuo nel finale sono il riassunto della valenza artistica e dell’importanza musicale che hanno avuto i Marillion nel panorama mondiale. Un’importanza indiscutibile. Un capolavoro e caposaldo del neo-prog e, se per una volta ci sleghiamo dalla regola di identificare e classificare tutto, del rock.

TRACKLIST

  1. Script For A Jester’s Tear
  2. He Knows, You Know
  3. The Web
  4. Garden Party
  5. Chelsea Monday
  6. Forgotten Sons
4 commenti
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