9.5
- Band: MARILYN MANSON
- Durata: 01:02:42
- Disponibile dal: 14/10/1998
- Etichetta:
- Interscope Records
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“This isn’t me. I’m not mechanical”.
Impossibile non considerare il terzo album della formazione di Marilyn Manson come quello del lustro completo, del processo evocativo e personale che dall’industrial passa per le grandi vie del glam rock, del sodalizio tra arte, mainstream e passione vera per ciò che si fa, della consapevolezza, infine, per quello che si è diventati. “La maggior parte delle persone, per definizione del dizionario, sono androidi. Non c’è ragione per concepire un mondo fantascientifico di persone fatte di metallo – di già, infatti, le persone che camminano intorno sembrano esseri umani, ma non si comportano come tali. Non esprimono niente di creativo, non mostrano emozioni, si sono rimbecilliti con la droga, la televisione, la religione”. Così il Reverendo suggella in un’intervista su Bam del 1999 quello che era il concept fondamentale del suo terzo lavoro. Altrettanto fondamentale, alla luce delle dichiarazioni successive, quanto quella trilogia narrativa che era partita da “Antichrist Superstar” e finita con “Holy Wood” si dovesse leggere alla rovescia, inquadrando quindi, nel caso di “Mechanical Animals” il punto fondamentale, inequivocabile, centrale, del percorso del progetto. La stanza della nuova casa a Hollywood era completamente bianca, come la stessa città intorno, vuota, e quel grande mondo bianco andava riempito con il significato delle canzoni. E tutte le canzoni che compongono il lavoro sono modelli, specchi, diapositive di quel mondo non-così-tanto-fantascientifico come potrebbe sembrare quello della storia di Omega, alieno androgino e bowieano sceso sulla terra e divenuto poi rockstar; come la sua controparte, del resto, Alpha, altra faccia del mondo bianco, vuoto e svuotato di umano. Era, tutto questo, un discorso sulla scena artistica, sulla musica stessa, sulla pubblicazione e comunicazione di un’immagine. Il peso sociale dell’album va di pari passo alla qualità indubbia di tutti i pezzi contenuti al suo interno. Pezzi che si configurano come veri e propri singoli radiofonici e in cui nessuno sembra lasciare spazio a momenti morti, deboli, inutili. Le canzoni dalla prospettiva di Omega sono sicuramente quelle più nichiliste, superficiali, che ben rappresentano quella satira sul personaggio di lustro; mentre quelle più riflessive, intime e altrettanto devastanti, sono quelle che seguono la prospettiva di Alpha, l’alter ego, così come suggerisce proprio la versione vinile successiva, in cui ogni disco traccia la visione di ognuno dei suoi due poli, unici e dissociati. Tra Jodorowski, Bowie, Sisters Of Mercy, Queen, si sancisce quella distanza netta tra i precedenti NIN, Ministry e White Zombie e si arriva ad un processo di diffusione molto più ampio. “The Dope Show”, “Coma White” e “Rock Is Dead” diventano hit di grande successo, ma nessuno si dimentica quei momenti che rimangono capisaldi della discografia di Manson, come “The Speed Of Pain”, “Fundamentally Loathsome”, “Disassociative”: riflessivi, caldi, poetici, che spiegano come la facciata della rockstar potesse essere maledetta, decadente e artistica non solo per il suo gettarsi a capofitto in fama, droga e sesso esplicito (“I’m just a boy playing the suicide king”). Album come questi si configurano come momenti probabilmente irripetibili: momenti in cui ci sono i soldi per poter dire queste cose, c’è una produzione, c’è uno status, c’è del contenuto, ci sono le belle canzoni, c’è la radio e ci sono degli uomini che dicono qualcosa del loro mondo. In questo caso Zim Zum (con il giungere successivo di un certo mr. John5), J.M. Gacy, Twiggy Ramirez e Brian Warner. E poi c’erano le droghe: quelle disassociative, la special K che ti slegava dalle tue gambe, la fama, il successo, la produzione, la droga bianca, le pillole per renderti ancora più squallido. E ancora i soldi. Molti. Niente di questo ti avrebbe salvato. A parte forse l’amore. Come astronauti, Manson e i suoi compari guardavano il mondo di sotto. Completamente bianco, dove vuoto e cocaina andavano riempiti con qualcosa. “In a world so white, what else can I say?”, viene detto alla fine del primo brano. Quando nel 1998 veniva inserito nel lettore, il terzo lavoro di Marilyn Manson lasciava vedere delle immagini e queste parole:
“Alla fine io sono diventato loro e li ho guidati. Dopotutto, nessuno di noi era qualificabile come umano. Eravamo solo esseri automatici e consumati, disperati come la ‘o’ in Dio. Ho riattaccato le mie emozioni cellulari e narcotiche. Dalla cima di Hollywood sembra tutto come un milione di capsule e animali meccanici. Una città riempita di stelle morte e una ragazza che ho chiamato Coma White. Questo è il mio Omēga”.