7.5
- Band: MARRIAGES
- Durata: 00:26:03
- Disponibile dal: 01/05/2012
- Etichetta:
- Sargent House
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“Kitsune” toglie il fiato. Fin dalle primissime note di “Ride In My Place” appare immediatamente chiaro che ci troviamo di fronte ad un lavoro che schiavvizza la nostra attenzione minuto dopo minuto, e non possiamo che rimanere basiti dal fatto che ci si arrende progressivamente ad un ascolto conturbante che ci fa praticamente scivolare dentro se stesso senza rendercene conto. Terribilmente breve nella durata, a cospetto della qualità messa in mostra, “Kitsune” è un lavoro che nei suoi striminziti ventisei minuti sfiora il miracolo. La durata dell’album è la sua croce. La sua maledizione. Quando “Part The Dark Again” scivola via portando al silenzio inevitabile della fine del disco, veniamo sopraffatti da un fastidioso senso di insoddisfazione poichè vorremmo ancora molto di più di questo disco; un secondo tempo che però non arriva mai. Unica pecca questa, la durata e la sensazione di semplice assaggio, di un lavoro altrimenti a tratti disarmante. I Marriages sono in realtà un side-project formato da tre quinti dei Red Sparowes, ovvero da Greg Burns, Emma Ruth Rundle e Dave Clifford, che qui si cimentano in un lavico, stratificatissimo, etereo e spichedelico shoegazing rock dal sapore molto intimistico e dai mood molto più inafferrabili e obliqui della band madre. A stupire maggiormente è la voce di Emma Ruth Rundle, che ci capita di sentire per la prima volta, e che è praticamente perfetta nel suo affrontare i tanti sali-scendi emotivi del disco e i vortici di rumore bianco di cui il disco è pregno. Le sei canzoni del disco sono sei piccole perle, ognuna piccola, preziosa e perfetta, racchiusa in un solidissimo guscio di songwriting ineccepibile ed atmosfere estremamente conturbanti. “Ride In My Place” apre il disco col botto. Le melodie sono indescrivibili, e le trame tessute dalle due chitarre, bluesy, iridescenti e ondeggianti tolgono letteralmente il fiato. I Red Sparowes non possono non venire in mente, ma la loro ingenua complessità post-rock nella musica dei Marriages è completamente assente, rimpiazzata da puro e struggente shoegaze rock, dominato dalla sfera femminile e caratterizzato da un incedere sontuoso e fierissimo che rende la proposta assolutamente irresistibile. Erano anni che non ascoltavamo un album basato su un uso così massiccio ma intelligente e delicato del delay, che riesce magicamente a inondare tutto, ma a mantenere ordine e rimanere organizzatissimo e cristallino allo stempo. Non si può che plaudere alla produzione davvero stellare di Toshi Kasai in questo caso, che ha veramente catturato delle idee che potevano non tradursi ottimamente su supporto fisico. Non è da meno “Body Of Shade” praticamente la continuazione della opener ma in salsa più minimalistica, come se i God Is An Astronaut avessero fatto una canzone con Tori Amos. Anche qua le atmosfere e il songwriting sono da panico. La terza traccia spinge sull’accelleratore. Gli ampli si fanno roventi, i volumi sostenuti e il suono cominicia ad uscire più metallico, sotto forma della struggente “Ten Tiny Fingers”, pezzo migliore dell’album. Siamo solo alla terza canzone e già a metà disco, e il solo pensiero che del lavoro sia rimasto poco rattrista, poichè gia ora sappiamo che non ne avremo mai abbastanza di questa musica. Qua si sentono gli echi degli Isis più rarefatti e degli Explosions In The Sky, ma la ricetta dei Marriages ancora una volta sfugge alle facili classificazioni, dilatandosi oltre orizzonti di non facile descrizione, come se le band appena citate si fossero messe a jammare con gli Slowdive. Raggiunto il climax, il disco volge alla conclusione con la pinkfloydiana “Pelt”, interludio strumentale di ottima fattura che fa salire il livello di amarezza traghettandoci ancor più vicini alla fine, seguito dalla “mogwaianissima” “White Shape”, muscolosa, massiccia e dalle melodie infallibili, anche senza le irrinunciabili voci della Rundle. Chiude il minimalismo struggente – e ancora una volta floydiano – di “Part The Dark Again”, giusta conclusione di un lavoro dominato da due elementi essenziali: la voce assolutamente in orbita della Rundle e un songwriting impulsivo, viscerale e spontaneo, che deve aver colto i tre musicisti in un momento di pura fagocitazione creativa. In definitiva, “Kitsune” è un lavoro che vive più dei suoi molti momenti isolati, davvero di una bellezza quasi roboante, che come prodotto univoco e completo a tutto tondo. A questa osservazione aggiungete l’amaro in bocca precedentemente accennato per via della breve durata e il giudizio finale che ne esce è sì positivissimo, ma inevitabilmente risicato, e anche un tantino lasciato in sospeso. Resta il fatto che ci sono delle canzoni qui dentro, dei momenti, che lasciano basiti per la bellezza e perfezione con cui si compiono, e che questa band, anche se non formata certo da dei debuttanti, è all’esordio, ragion per cui le aspettative su questa nuova carriera appena iniziata sono alle stelle.