8.0
- Band: MASTODON
- Durata: 00:54:03
- Disponibile dal: 24/06/2014
- Etichetta:
- Warner Bros
- Distributore: Warner Bros
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Un altro giro intorno al Sole, dopo aver circumnavigato a più riprese il globo terracqueo in cui vivono con altri sette miliardi e rotti di persone. Un’altra rotazione attorno all’asse terrestre per certificare che i giri della giostra sono lungi dal terminare. Sono solo cambiate le regole d’ingaggio, non la qualità degli interpreti. “Once More ‘Round The Sun” non farà ricredere gli scettici e i detrattori dei Mastodon: chi si era sentito tradito da “The Hunter”, come può esserlo un innamorato dopo anni di intensa passione, non tornerà sui suoi passi. Dell’amata non ritroverà i lineamenti e il profumo che tanto aveva adorato, dovrà accettare pertanto la fine della storia, senza indugiare in ulteriori rimpianti. Coloro i quali hanno perseverato e hanno dato credito ai quattro genialoidi della Georgia, seguendoli fedelmente nel processo di addolcimento e addomesticamento iniziato con “Crack The Skye”, potranno invece sentirsi ripagati anche stavolta da un album che, se da una parte conferma la maggiore linearità e la nuova identità rock del gruppo, recupera una certa sofisticazione e potenza immaginifica dell’imprescindibile quarto full-length, che a parere di chi scrive si pone come una delle opere più riuscite dell’intera storia del metal. E’ tornato l’epos, quello esploso nelle orecchie di migliaia di metaller con “Leviathan”, e ora di nuovo presente, fierissimo, in una versione meno aspra ma dotata di un fascino irresistibile. Una marea che sale, travolge e innalza, ecco cosa sono stati per anni i Mastodon, e ora questa sensazione ci arriva addosso nuovamente, implacabile, nelle progressioni iraconde, guidate da urla rauche come ai vecchi tempi, di “Feast Your Eyes”: un pezzo se vogliamo semplice, giocato sullo scambio di ruoli tra stacchi di melodie limpide e burrascose cavalcate in ascendenza emozionale, che per brevità e snellezza potrebbe essere il miglior biglietto da visita del disco. Ma questo sarebbe solo il modo più semplice per avvicinarsi all’opera, e non è certamente l’unico. La partenza dell’album è rassicurante, “Tread Lightly” dà le prime sensazioni da pelle d’oca e ci ricorda cosa voglia dire essere epici senza chiamare in causa mondi fantasy, saghe infinite oppure guerre di secoli addietro. La prima parte è gonfia di pathos, poi la band si scioglie in andamenti spumeggianti, trattenuti a livello ritmico ma barocchi nei dettagli chitarristici, architrave assoluta dell’intero lavoro. “The Motherload” è la canzone da highway come la intendono i Mastodon, con qualche appena accennato inserto elettronico a dare una sottile coltre space. Dailor mette il suo sigillo anche quando si limita a tenere il tempo, come in questo caso. “High Road” è totalmente e indiscutibilmente metal, nonostante proietti al suo interno elementi southern e la mai nascosta fascinazione per i Thin Lizzy; il riff portante è duro come una volta, mentre un po’ di insistenza in meno sul refrain e una voce più sporca nell’affrontarlo sarebbe stata gradita, ma visto il risultato finale non è il caso di sottilizzare troppo. “Chimes At Midnight” fa assaporare il gusto della scoperta e dell’esplorazione di una caverna ancora vergine dal passaggio dell’uomo; ossessiva, poetica e a tratti deragliante, ci si attacca al collo e non ci molla, ci fa volare e sprofondare, mentre il riffing si indurisce e, una volta che si è trasformato in roccia, sfuma in una spezia di ignota natura, vaporosa e impalpabile. Uno dei punti più alti di “Once More ‘Round The Sun”, col finale lisergico e arpeggiato che era uno dei cavalli di battaglia del già citato “Crack The Skye”. “Asleep In The Deep”, oltre al titolo che potrebbe indicare molto del nostro stato d’animo intanto che ascoltiamo il disco, persi tra profondità oceaniche in cui solitari ammiriamo meraviglie nascoste ai nostri simili, è la canzone che gli adoratori del vecchio materiale non accetteranno mai possa provenire dalla medesima penna che ha scritto “Ol’e Nessie”. Eppure contiene, in sei minuti e spiccioli, una melodia portante che garantirebbe da sola l’immortalità ai Nostri, un cantato da trip allucinogeno, effetti da viaggio intergalattico, o verso il centro della Terra. Lasciamo a voi la scelta. “Aunt Lisa”, non fosse per lo sciagurato coretto finale da travaso di bile istantaneo, è broccato principesco di psichedelia, hard rock settantiano e delizie di melodie cristalline come solo i Mastodon sanno palpeggiare con le loro sei corde. Andando verso la conclusione, ci gustiamo due tracce dalle connotazioni quasi opposte: “Halloween” rincorre lo spettro dell’hard da classifica e lo agguanta con un refrain celestiale, spazzato via da una ripartenza rock’n’roll speziata da sludge melodico che, non ci stancheremo di dirlo, solo questi quattro potevano inventarsi. “Diamond In The Witch House”, al contrario, è la suite perigliosa e colma di peripezie che ci mancava dai tempi di “The Last Baron”, con in seno alcune di quelle contorsioni che ci avevano spaccato in mille pezzi cinque anni orsono e un lirismo da pelle d’oca, soprattutto in chiusura. Abbiamo delle perplessità per alcuni passaggi fin troppo aggraziati e ripuliti, anche se di classe; per dire, il coro di “Ember City” è leccato e troppo leggero, ma quello che ci sta attorno, tra le nervose e appaganti rullate di Dailor, i solo seventies di Hinds e Kelliher e il solito riffing ammaliante, ci lascia estatici. Rischiando epiteti di ogni tipo, vi diciamo che con questo disco i Mastodon sono diventati una band di grande rock americano come potrebbero essere i Lynyrd Skynyrd o gli ZZ Top: ne hanno ora la forza commerciale e la capacità affabulatoria e di richiamo che quando iniziavano a farsi conoscere nei primi anni 2000 mai si sarebbero immaginati un giorno di possedere, e noi con loro. Un’evoluzione assurda, impensabile, che ha lasciato per strada molti fan e che qualcuno cinicamente potrebbe paragonare a quella dei Metallica. Chi scrive la pensa diversamente, e non può che augurarvi di galleggiare nell’etere all’ascolto di “Once More ‘Round The Sun”. Se proprio non riuscite a mandarli giù nella versione attuale, ritornate serenamente a “Remission”.