7.5
- Band: MELVINS
- Durata: 00:40:47
- Disponibile dal: 14/08/2022
- Etichetta:
- Amphetamine Reptile Records
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Poche band possono vantarsi di essere sempre imprevedibili ed eppure sempre riconoscibili dalle prime note, e tra queste spiccano senza ombra di dubbio i Melvins.
Partendo dalle certezze, viene confermato al timone delle quattro corde Steven McDonald, sempre più parte integrante del suono e dell’immagine stessa della band: un trio consolidato e solido, che non a caso si affida a questo giro a collaborazioni misurate, ovviamente per quanto possa significare questo aggettivo in ottica Melvins. Parliamo, nello specifico, di Dylan Carson – di cui auspichiamo non dover fare presentazioni – che offre la sua chitarra acida alle dilatazioni psych/sludge dell’opener “Mr. Dog Is Totally Right”: un pezzo pachidermico, dalla ritmica variegata e con non pochi elementi di follia, eppure anche in grado di rientrare perfettamente nei canoni dei dischi più classici della band (pensiamo in particolare a “Stoner Witch”). Quattordici minuti di durata non sono pochi da gestire tenendo vivo l’interesse dell’ascoltatore, specie all’alba del disco numero ‘chi lo sa’ di questa prolifica band; proprio per questo ci pare subito di avere a che fare con una delle loro uscite più stuzzicanti da diversi anni. Tornando alle ospitate e saltando un po’ più avanti nella tracklist, torna dietro le tastiere l’ormai frequente collaboratore Toshi Kasai in “It Won’t Or It Might”, altro pezzo di discrete lunghezza e dall’approccio psichedelico, ma in questo caso virato verso sonorità più sixties: si sente sempre più, sia qui che nella traccia a seguire, l’influenza di McDonald (non a caso anche voce solista nel brano suddetto) e delle sue radici flower power, comunque perfettamente integrate nelle schizoidi trame e nei riff di lava della band.
Il resto sono ‘solo’ tre canonici brani dei Melvins, ovviamente diversissimi tra loro; c’è la sguaiata “Never Say You’re Sorry”, il loro classico midtempo incalzante e figlio dei Black Sabbath sotto il geniale titolo “My Discomfort Is Radiant”, mentre a chiudere il disco “The Receiver And The Empire State” riporta l’orologio agli anni del grunge, ovviamente in chiave King Buzzo.
Come sempre, per quanto sia dura aspettarsi veri e propri scossoni da questa band, ritroviamo una certezza di qualità e di divertimento, percepibile anche tra i membri della band; non ci pare poco dopo quaranta anni di carriera.