7.0
- Band: MELVINS
- Durata: 00:37:07
- Disponibile dal: 20/04/2018
- Etichetta:
- Ipecac Recordings
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Difficile esulare, nella recensione di un nuovo lavoro dei Melvins, dalle ormai ataviche chiavi di lettura della loro discografia, vale a dire la prolificità e l’inevitabile sorpresa che ci attende in merito al partner in crime scelto di volta in volta per occuparsi delle quattro corde. Questa volta va detto che le carte in tavola sono chiare fin dal titolo dell’album: “Pinkus Abortion Technician” non può infatti non accendere una lampadina ai fan più accaniti della band sulla presenza di Jeff Pinkus, più volte collaboratore occasionale di King Buzzo e Dale Crover e storico bassista dei Butthole Surfers, che si affianca a Steven McDonald, la cui posizione come bassista ufficiale pare tutto sommato consolidata, eccome. E infatti, rispetto alle premesse, che potrebbero far pensare a un lavoro grasso, pesante e colante ritmiche devastanti come più volte proposto dalla band di Montesano, sono proprio le personalità dei due bassisti a emergere con forza: da una parte le suggestioni derivanti dalla presenza di Pinkus, che porta nel carniere una cover dei Butthole Surfers stessi (“Graveyard”) e il curioso medley tra un altro loro pezzo e “Stop” degli storici James Gang sull’iniziale “Stop Moving To Florida”, e dall’altra l’evidente influsso catchy e più psichedelico dell’istrionico McDonald. Che in brani come la stessa opener, “Embrace The Rub” e “Flamboyant Duck” contribuisce sicuramente con forza a mediare l’assalto grezzo delle chitarre di Buzzo alla luce di un acido approccio più ‘banalmente’ alternative (ma, si sa, con questa band le virgolette sono d’obbligo). I brani dal sound più propriamente Melvins, come “Don’t Forget To Breathe” o “Break Bread”, riportano agli anni d’oro di Houdini et similia, ma con il loro solito e ammirevole gusto sperimentale: nel primo caso grazie all’innesto di suggestioni orientaleggianti, e nella seconda con un bel gioco di crybaby per basso nella parte conclusiva. Completano il quadro “Prenup Butter”, sorta di brano sludge acustico dal basso preponderante – e chi se non i Melvins poteva trovare una simile, ottimale quadra? – e la bella e dilatata cover di “I Want To Hold Your Hand” dei Beatles, già proposta nel corso dell’ultimo tour. Un lavoro, insomma, apparentemente poco organico, eppure in grado di brillare di quella luce unica e lisergica che solo i Melvins, da ormai trentacinque anni, sanno far risplendere, e promosso come (pressoché) sempre a pieni voti.