6.5
- Band: MEMORIAM
- Durata: 00:44:46
- Disponibile dal: 03/02/2023
- Etichetta:
- Reaper Entertainment
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Si inizia a perdere il conto dei dischi dei Memoriam, band che non vuole farsi mancare nulla e che procede da sempre a passo spedito, con uscite a getto continuo, intervallate al massimo da un anno e mezzo di relativa pausa. “Rise to Power” è l’ennesima prova volta a scandagliare tutti i risvolti di quell’immaginario guerresco e di quel suono epicheggiante – su base death metal – coniato dai britannici sin dal giorno della loro fondazione. Quello che si sente nel nuovo capitolo è probabilmente l’estratto più lucente e melodico di questo forsennato cammino nel quale il quartetto, nonostante qualche indubbia ingenuità e passo falso, ha saputo consolidare un proprio suono e una sua direzione stilistica, dove tutto è steso sotto una coltre di eroiche linee di chitarra solista e dove nessun altro elemento sembra occupare una posizione di rilievo, dato che anche la pur riconoscibile voce di Karl Willetts è ormai sempre più bassa.
Di primo acchito, si potrebbe vedere “Rise to Power” come una sorta di ‘ritorno alle origini’, visto che i piacevoli spunti post-punk sperimentati sul precedente “To the End” sono già spariti per fare spazio a una proposta di nuovo puramente metallica, con i consueti riff corposi sorretti quasi incessantemente dalla doppia cassa di Spikey T. Smith. Tuttavia, ad un ascolto meno sommario, si nota come nella musica dei Memoriam questa volta siano confluite – oltre alle ovvie reminiscenze Bolt Thrower/Benediction – inedite velleità melodic death metal che in alcuni tratti sembrano strizzare l’occhio a Svezia e Finlandia. Il chitarrista Scott Fairfax si rende insomma protagonista di una prova molto impegnativa, lavorando di cesello in ogni episodio di questa densa tracklist equamente divisa tra arie minacciose e altre rassegnate, nelle quali il gruppo cerca di rigurgitare a proprio piacimento vari linguaggi musicali e di incanalarli all’interno della propria visione. In questo clima avvolgente, che in un paio di casi può risultare quasi come una versione più asciutta degli Insomnium, la performance del buon Willetts appare particolarmente sentita, anche se i limiti, tecnici e non, sono evidenti; come un vecchio reduce di guerra, il frontman sembra dirci che tutto quello che vorremmo raggiungere concretamente in fondo è solo utopia e che le amarezze della vita reale ci riporteranno sempre ad affrontare un mondo che non avremmo mai voluto.
Quando ci si concentra sulla musica, ci si accorge comunque di come la durata delle singole tracce sia piuttosto corposa e, come già avvenuto in passato, si fa largo l’impressione che non tutto sia essenziale: il prolungato sviluppo delle evoluzioni chitarristiche – alternate a qualche riff oggettivamente assai dozzinale – rischia di portare le canzoni verso alcuni vicoli ciechi, così che l’incanto che gli inglesi vogliono creare non trascenda e non conquisti, ma semplicemente accompagni in un’esperienza di ascolto soltanto piacevole, dove la generale tenuta d’insieme ha più peso del talento vero e proprio. Si giunge così al termine del disco mediamente appagati, ma non elettrizzati; una sensazione che, a ben vedere, è quella che hanno destato tutte le precedenti uscite dei Memoriam, ad eccezione forse del più solido e centrato “Requiem for Mankind”. Vedremo ora dove Willetts e compagni andranno a parare con il prossimo capitolo, certi del fatto che non dovremo attendere più di un paio d’anni per ascoltare nuova musica da parte loro.