9.5
- Band: MERCYFUL FATE
- Durata: 00:42:54
- Disponibile dal: 07/09/1984
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Self
Spotify:
Apple Music:
È il 1984 quando “Don’t Break The Oath” fa il suo ingresso sulla scena. Pensiamo un secondo ai primi dischi di quell’anno che ci vengono in mente: “Powerslave”, “Ride The Ligthning”, “Hail To England”, esordivano gli Anthrax, uscivano “Haunting The Chapel” e “Defenders Of The Faith”; già solo a parlare dei nomi grossi-grossi c’è da sentirsi male. I Mercyful Fate avevano già stregato i metallari di tutto il mondo con l’iconico EP e soprattutto con “Melissa”, un lavoro sulfureo e oscuro che prendeva dei dettami hard rock, li ricostruiva sulla forma della NWOBHM e ne tingeva di nero ogni caratteristica.
Già dalla copertina sembra essere chiaro quanto questo secondo disco puzzi di zolfo, con quel demone che tra le fiamme punta perentorio il dito verso l’ascoltatore, ammonendolo imperioso, non concedendo dubbi o ripensamenti. Tra i gruppi della cosiddetta prima wave di black metal, i Mercyful Fate sono forse quelli che maggiormente hanno segnato certe caratteristiche iconografiche e sceniche del futuro black scandinavo, a partire dal corpse paint (fascinazione questa che, tuttavia, sembra condividere l’ispirazione con le figurine dei Kiss che negli anni ’80 venivano regalate ai bambini norvegesi, vai a sapere…) fino alla totale aderenza al satanismo, con fare estremamente teatrale ed horror, sì, ma a modo suo più ‘serioso’ rispetto all’approccio delle altre band che hanno forgiato le linee-guida per la second wave. I testi del Re suonano ieratici, vengono presi sul serio da chi li canta, e hanno una struttura alle spalle che traccia una differenza sostanziale rispetto alle liriche di Venom, Hellammer o Bathory (che pure usciranno in questo pazzesco 1984 con, rispettivamente, “At War With Satan”, “Apocalyptic Raids” e “Bathory”).
“Don’t Break The Oath” segna la maturità per la band, mostra dei musicisti consapevoli e in stato di grazia: quarantadue minuti di un continuo rincorrersi di riff e atmosfere macabre, in cui gli assoli si incrociano, si inseguono (la scuola dei Judas Priest risulta evidente), la produzione suona calda e potente come mai prima, mostrando una sezione ritmica costantemente sull’attenti e che crea un muro insormontabile; il tutto diventa, a ben vedere, ancor più squisitamente heavy metal, e su tutto svetta l’ombra del narratore oscuro che si conferma King Diamond; si amino o meno i suoi falsetti (noi li amiamo), non si può negare la sua influenza sul metal tutto.
I brani che compongono il disco sono, senza giri di parole, pazzeschi: basti menzionare il riff che apre “A Dangerous Meeting” a settaggio dei toni dell’opera, sulfureo e grave, un ingresso nelle schiere infernali, andando sempre più a fondo con le successive canzoni: “Nightmare”, la cui evocativa parte centrale sembra richiamare quasi “Satan’s Fall” del precedente lavoro, la robusta “Desecration Of Souls” e a ruota “Night Of The Unborn” coi suoi ossessivi ritornelli e una base sostenuta che più heavy non si può, fino al culmine di “The Oath”, il cui testo è una vera e propria preghiera luciferina: By the symbol of the Creator, I swear henceforth to be / a faithful servant of his most puissant arch-angel / the Prince Lucifer / whom the Creator designated as his regent / and Lord of this world. Amen. Un pezzo cupo come la notte, che si snoda in sette minuti che tolgono il fiato: l’apertura con l’organo, la recitazione, l’esplosione di heavy metal sulla base di un riffing ossessivo e le continue divagazioni in una struttura a suite fanno di questa traccia una gemma di metallo incandescente. Siamo talmente rintronati da “The Oath” che quando parte “Gypsy” potrebbe anche apparire un brano un po’ più semplice e debole rispetto ai precedenti, ma che, con una sua struttura lineare, riesce a rimanere impresso molto facilmente, facendone così un classico da live.
“Welcome Princess Of Hell” segue i dettami del primo lato del disco: metallica, veloce, arriva dritta e dice tutto nei suoi quattro minuti, e mentre rifiatiamo con la breve strumentale “To One Far Away”, ci apprestiamo all’ultimo rituale, la cerimonia collettiva: “Come To The Sabbath” non ha un intro, il primo accordo ci stordisce e ci accoglie tra le sue spire, ci prende per mano e ci rende un tutt’uno con l’oscena celebrazione. Il riff iniziale è marziale quanto le accelerazioni nella strofa, e l’aria che si crea è inquietante, con un finale angosciante che ci lascia con l’eco di un terrificante falsetto: “My sweet Satan, you are the one!”.
Raro esempio di instant classic, “Don’t Break The Oath”, al di là dei gusti personali, rappresenta oggettivamente l’apice dei danesi, talmente maturo da portare la band al disfacimento, con la separazione e il successivo inizio della carriera solista di King Diamond; una vetta mai più ripetuta nemmeno con le successive reunion, capace di regalare alla storia una band di culto per l’heavy metal tutto. Imprescindibile.