9.0
- Band: MERCYFUL FATE
- Durata: 00:47:04
- Disponibile dal: 25/10/1994
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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Il 1994 non è stato – in linea di massima – un anno particolarmente memorabile per l’heavy metal. O per lo meno, non è stato un periodo semplice, discograficamente parlando, per le formazioni che avevano dominato i rocciosi anni ‘80, complici tutti i cambiamenti che avevano scosso e in parte ridisegnato il mondo occidentale. Senza voler allargare troppo lo sguardo, e lasciando fuori la geopolitica, possiamo però ricordare che gli anni ‘90 vedono l’irrompere sulla scena del ‘rock duro’, il cosiddetto grunge/alternative rock, che ha significato un punto di rottura pressoché totale con quanto il metal aveva rappresentato (con grandissimo seguito mainstream) fino a poco tempo prima.
All’inizio del decennio, mentre l’incontenibile successo dei Nirvana in primis (nonché di Pearl Jam, Soundgarden, Hole, Red Hot Chili Peppers, The Smashing Pumpkins, ecc.) toglieva progressivamente spazio, visibilità, interesse (e soldi) alle produzioni legate al metal tradizionale, l’underground più estremo si sviluppava e dava alla luce dischi epocali in ambito death metal – sia brutale che melodico – e black metal, nella sua forma più iconica e autentica, allora tanto nuova quanto sconvolgente.
Ė in questa cornice che viene dato alle stampe il secondo album dalla reunion dei Mercyful Fate, tornati sulle scene l’anno precedente con l’ottimo “In The Shadows” dopo nove anni di silenzio discografico, rotto solamente da alcune raccolte di materiale demo e registrazioni live – per la verità molto gustose – quali “In The Beginning” e “The Return Of The Vampire”. Queste uscite risalgono infatti al periodo di rottura tra King Diamond, voce e mastermind indiscusso della band danese, e Hank Shermann, chitarrista co-fondatore e co-compositore. Quest’ultimo, apparentemente insoddisfatto dello stile sulfureo, veloce ed intricato, oltre che dai testi spesso apertamente satanisti, aveva tentato la strada del successo su larga scala fondando i Fate – un rassicurante complesso AOR – che lascerà appena tre anni dopo, una volta constatato l’insuccesso e l’inconsistenza del progetto.
Ma gli anni dello split – più precisamente tra il 1985 e il 1990 – sono anche gli anni nei quali l’istrionico Re Diamante, al secolo Kim Bendix Petersen, dà vita al suo progetto omonimo, nel quale confluisce anche Michael Denner, l’altra storica ascia del Fato Misericordioso. Insieme, i due scrivono i primi capitoli di una saga che continuerà negli anni a venire di pari passo con la carriera dei Mercyful Fate. Potremmo scrivere pagine e pagine al riguardo, ma in questo contesto ci limiteremo a ricordare che la produzione targata King Diamond è stata in quel periodo di qualità altissima e stilisticamente molto vicina alla band ‘madre’.
Rispetto agli esordi dei Mercyful Fate, album come “Fatal Portrait” e “Abigail” d(e)i King Diamond hanno sicuramente la peculiarità di essere concept album che raccontano storie orrorifiche di fantasmi, disegnate per enfatizzare l’elemento teatrale (e mettere da parte quello blasfemo).
Perciò, nonostante il vuoto fosse stato immediatamente – quanto brillantemente – colmato da questa incarnazione ‘parallela’, l’entusiasmo dei fan per il ritorno all’ovile di Shermann sotto il vecchio, leggendario monicker, era giustamente altissimo. E i musicisti danesi non deludono le aspettative: il già citato “In The Shadows” è un comeback roboante che ha il difficilissimo compito di non far rimpiangere i capolavori degli anni ‘80. “Melissa” e “Don’t Break The Oath” sono dischi inarrivabili, ma il cosiddetto ‘secondo corso’ del gruppo è ugualmente di tutto rispetto.
Arriviamo così – finalmente – a parlare di “Time”, un disco più oscuro del suo predecessore fin dalla copertina, oltremodo essenziale: semplicemente la foto di un teschio (quello di Melissa?) mancante della mascella inferiore, su sfondo nero.
Quello che ci aspetta mettendo la puntina sul disco (o premendo un qualsivoglia tasto ‘play’) è una colata di heavy metal oscuro, perfettamente cesellato dalla riformata coppia di chitarre Shermann/Denner e dall’uso chirurgico delle tastiere da parte di King Diamond, capace di creare trame gotiche senza mai strafare. Il sound è (ovviamente) vicino a quello del suo immediato predecessore, ma il songwriting risulta forse più a fuoco, ficcante, e meno legato al passato (pensiamo in particolare a “Is That You, Melissa” e alla nuova versione di “Return Of The Vampire” su “In The Shadows”). La sezione ritmica è formata dagli svedesi Snowy Shaw dietro alle pelli e Sharlee D’Angelo al basso, entrambi provenienti dall’omonimo side-project del Re danese. Se il batterista rimarrà con la band solo un paio d’anni, l’ottimo D’Angelo (al secolo Charles Petter Andreason) suonerà nel gruppo fino al (secondo) scioglimento della band nel 1999.
“Nightmare Be Thy Name” apre il disco con un giro doom rock che sa prepotentemente di Black Sabbath, ma i vorticanti assoli ai quali i danesi ci hanno abituato sono dietro l’angolo, così come l’evocativo coro gotico che costituisce il ritornello. Il video che viene girato non è – come spesso succede – all’altezza del brano, e vede semplicemente la band suonare in un edificio abbandonato, forse un parcheggio, con il solo fumo biancastro a fare da ‘elemento d’atmosfera’. La cosa che fa specie, visto come sono andate le cose, è vedere il vecchio logo di MTV impresso sulla pellicola, a memoria storica di un’epoca in cui era effettivamente la musica – compresa quella metal – il centro del canale americano più amato/odiato di sempre. Poco importa, “Nightmare By Thy Name” va subito ad ingrossare le fila dei classici, insieme a “Witches’ Dance”, l’altro pezzo per il quale viene realizzato un videoclip (questa volta un prodotto più elaborato e ragionato). Si tratta di un altro brano nel quale heavy metal tagliente e atmosfere oscure, orrorifiche, si controbilanciano perfettamente, e che si tinge di progressive nella parte centrale. L’elemento teatrale è presente in modo misurato e non diminuisce la forza trascinante del pezzo, nonostante l’effettiva complessità del songwriting. Questa è, del resto, sempre stata la grande forza dei Mercyful Fate, che si dimostrano capaci di scrivere ottime cose anche nei famigerati anni ‘90.
Cambio di sonorità per la successiva “The Mad Arab”, tributo a H.P. Lovecraft: l’arabo pazzo a cui si fa riferimento è infatti Abdul Alhazred, personaggio fittizio e supposto autore del famigerato “Necronomicon”. Atmosfere orientali, esotiche e misteriose per una canzone che anticipa, nello stile di scrittura, buona parte della produzione successiva del combo originario di Copehnagen: meno irruenta e più modellata sulla narrazione del Re Diamante, ma comunque godibilissima. La title-track è un autentico gioiellino gotico: ballad oscura che si trasforma in cavalcata heavy, “Time” è la perfetta sintesi dello spirito della band in quel periodo; le melodie sono tanto avvincenti quanto struggenti e King Diamond dimostra – qui come in tutto il lavoro – estrema versatilità, muovendosi con agilità tra fraseggi appena sussurrati, vocals aggressive, linee vocali dolcissime e il tipico falsetto altissimo. Michael Denner e Hank Shermann ci regalano ancora una volta assoli memorabili e il clavicembalo aggiunge fascino antico a questa perla oscura. “My Demon” e “The Preacher” sono due pezzi stilisticamente vicini, il primo più diretto e veloce, il secondo con un bel tiro groove; particolarmente riuscita è “Lady In Black”, altro piccolo capolavoro alchemico che vedi la sezione ritmica sugli scudi e un lavoro di chitarre memorabile, la durezza dei riff sublimata dalla melodia delle linee vocali. Non ci sono reali punti deboli in questo lavoro e ciascun brano ha la propria anima oscura, ma vogliamo citare ancora (in ordine sparso) l’ottima “Angel Of Light”, il pezzo più luciferino del lotto (nonché uno dei migliori) e la conclusiva “Castillo Del Mortes”, un altro brano veloce e intricato, duro quanto elaborato nella struttura progressive, impreziosito in apertura dagli arpeggi di chitarra acustica.
In conclusione, “Time” ha sofferto – con l’intera produzione targata Mercyful Fate di quel decennio – dell’ombra piuttosto ingombrante dei capolavori immensi che lo hanno preceduto, oltre che delle difficili condizioni al contorno citate in premessa. Vi consigliamo di (ri)scoprire questo lavoro perché è un grandissimo disco di heavy metal, scuro ed evocativo come solo il Re Diamante e la sua Congrega sono capaci di scrivere. Mix ottimamente bilanciato tra acciaio colante ed atmosfere sulfuree, aggressività e melodia, messo in risalto da una produzione perfetta, con suoni anni ‘80 ben lontani da quel lieve sentore ‘plasticoso’ che ritroveremo più avanti (ad esempio sul pur buonissimo “9”).
Un disco che ha retto bene al passare degli anni, nonostante il tempo – ci ricorda il menestrello King Diamond – ci scorra addosso inesorabile senza fermarsi neanche un secondo.