5.5
- Band: MESSIAH
- Durata: 00:44:47
- Disponibile dal: 01/03/2024
- Etichetta:
- High Roller Records
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La venuta dei Messiah, capitolo numero sette. La creatura death-thrash svizzera, guidata dal chitarrista R.B. Brogi, è di nuovo in azione, a quattro anni di distanza dall’ultimo episodio in studio targato “Fracmont”. Un album che, in un colpo solo, aveva ridato il benvenuto alla formazione elvetica dopo più di tre lustri di silenzio, mostrando inoltre quelle stesse caratteristiche che avevano marchiato i lavori precedenti (“Choir Of Horrors” e “Rotten Perish” su tutti). Riff arcigni ed articolati, in aggiunta alla voce greve e glaciale di Andy Kayna, così da intrecciare un filo spinato di metal estremo, mai banale, con spunti ricercati e stacchi death-prog. Insomma, un gradito ritorno per una band rimasta sostanzialmente nel limbo, incapace, tra cambi di line-up, pause e scioglimenti, di compiere il grande salto in avanti.
Malasorte e incertezze, puntualmente presentatesi anche dopo la pubblicazione del dignitoso “Fracmont”. Prima l’abbandono dello stesso Kayna nell’ottobre 2021 (sfortunatamente scomparso nel novembre dell’anno successivo), quindi la realizzazione del qui presente “Christus Hypercubus”, disco contornato da luci ed ombre, dove le seconde, purtroppo, vanno a prendere il sopravvento sulle prime. Che il nero predominante in copertina (graziosa), a discapito dei dettagli dorati, fosse un segno premonitore? Difficile a dirsi; mettendo comunque sulla bilancia i pro e i contro di questa nuova release firmata Messiah, le note dolenti pesano eccome sul risultato finale dell’album.
Il problema? Presto detto: se gli arrangiamenti, ritmi e riff (almeno nella prima parte) non dispiacciono, altrettanto non si può dire del comparto vocale, e tantomeno dei testi a supporto di Marcus Seebach, alla prima ufficiale dietro il microfono. Basterebbero in tal senso la title-track, “Speed Sucker Romance” e, soprattutto, “Once Upon a Time… Nothing” per palesare quanto appena scritto. La ripetizione ad libitum, o meglio allo sfinimento, in stile coro-da-stadio, dei vari refrain è un pugno nello stomaco, che nausea ed infastidisce, sminuendo di fatto l’operato di Brogi e compagni, penalizzando in toto l’intero songwriting. Ci si chiede se abbiano giocato a “Scarabeo” durante la stesura delle liriche di alcuni pezzi, perchè la pochezza creativa di penna è davvero desolante.
Non solo, neppure il timbro dello stesso Seebach aiuta a rimpolpare la carenza testuale: con un’ugola simil Chuck Billy (si ascolti l’opener “Sikhote Alin”), il cantante svizzero difficilmente prende in mano la situazione, rimanendo su un piano statico e poco avvincente. E visto che, dalla morente “Please Do Not Disturb (While I’m Dying)” alla conclusiva “The Venus Baroness II”, anche l’ispirazione strumentale perde sensibilmente i colpi, il definire “Christus Hypercubus” un disco al di sotto delle aspettative diventa la definitiva conseguenza.