7.5
- Band: MESSIAH
- Durata: 00:49:23
- Disponibile dal: 11/09/20
- Etichetta:
- High Roller Records
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Messiah, atto secondo. Dopo i segnali, minimi ma soddisfacenti, lanciati con il recentissimo EP “Fatal Grotesque Symbols-Darken Universe”, la death metal band di Remo Brögi è di nuovo tra noi per dar vita a quello che, a conti fatti, è ufficialmente il seguito di “Underground”, quinto album realizzato dal combo elvetico nel 1994. Ma se quest’ultimo, a causa della sua apertura modernistica, aveva fatto storcere il naso a più di un purista della prima ora, riuscendo ad entrare alla voce ‘ricordi’ solo grazie al pezzo tecno-death “The Ballad Of Jesus”, il nuovo “Fracmont” ha ripreso il timbro old-school senza comunque ancorarsi troppo al passato più estremo e caotico, ma cercando di strutturare i brani in maniera più armonica; sì death ma con criterio e ricercatezza, a dimostrazione che una certa maturità, se sfruttata a dovere, può regalare ancora piacevoli sorprese. E per farlo, il chitarrista svizzero ha deciso di riunire i compagni di lungo corso: dal batterista Steve Karrer (presente anche in “Underground”) al bassista Patrick Hersche sino al cantante Andy Kaina la cui prova, oltre a quella di garanzia portata a termine dallo stesso Brögi, è stata sicuramente una delle note più positive dell’intero full-length.
Cos’è il Fracmont? Un aiuto ci arriva direttamente dalla copertina: una figura incappucciata si staglia di fronte ad una catena montuosa, attorniata da una dozzina di uccelli minacciosi. Ma a colpire sono le mani sanguinolente del misterioso personaggio: mentre coprono il suo volto, quasi a nascondere un atto vergognoso, iniziano a colorare di rosso la pozza d’acqua in cui è immerso. Spulciando tra i racconti popolari della vicina Svizzera, si scopre che il Fracmont era l’antico nome dell’attuale monte Pilatus, sito a pochi chilometri da Lucerna: la leggenda vuole che proprio ai piedi del massiccio si aggirasse lo spirito di Ponzio Pilato il quale, periodicamente, scatenava violente tempeste che si abbattevano in tutta la zona, impedendo così l’ascesa alla vetta della montagna. Si narra, infatti, che il governatore romano, dopo essersi suicidato in seguito all’accusa di aver giustiziato Gesù Cristo, venne gettato proprio nelle acque del lago dei Quattro Cantoni, posto proprio di fronte al ‘mons fractus’, dalle quali, ogni Venerdì Santo, emergeva per lavare le sue mani insanguinate. Una vicenda oscura riassunta alla perfezione dalla stessa titletrack: dieci minuti in cui Brögi e compagni trasportano in musica l’intrigante leggenda. L’inizio, ritmato a mo’ di marcia e contraddistinto da un riff maligno e diretto, a simboleggiare l’ostico cammino intorno alla zona maledetta, si alterna agli assoli fulminei replicanti gli strali lanciati da Pilato a coloro che si avvicinavano al ‘suo’ monte; il tutto, prima che uno stacco acustico crei quel senso di vaga desolazione mista a tristezza, pompata da cori inquisitori, ad anticipare l’ultima parte del brano più severa e pesante. Un pezzo che va a costituire una sorta di colonna sonora, completa e coinvolgente su cui, come detto in precedenza, è la voce di Kaina ricoprire un ruolo preponderante.
Ed in effetti, prendendosi ogni libertà del caso, parecchi dei brani a seguire rinnoveranno lo schema di “Fracmont”: unire più elementi in una struttura comunque ben amalgamata e tecnicamente perfetta, come testimoniano le successive “Morte Al Dente” e “Urbi Et Orbi” in cui è la mano di Remo a prendere il sopravvento, intarsiando trame diabolicamente perfette. Un album che, portando con sé anche episodi più classici (“Singularity”), necessita di maggiori ascolti utili da individuare le varie sfaccettature di natura stilistica. Esempio è “Children Of Faith” dove passato e presente fanno a pugni in quello che, dopo la titletrack, è sicuramente l’episodio migliore dell’intero lotto: un monito, quello lanciato dai Messiah, che, appesantito da “Dein Wille Geschehe”, non si discosta di una virgola dall’atteggiamento anti-cristiano adottato dalla band sin dai suoi esordi. Un full-length che trova un leggero calo, dicasi filler, proprio sul finale con “Miracle Far Beyond Disaster” a vestire i panni del pezzo debole, mentre è l’Ave Maria di Schubert ad introdurci nella conclusiva “Throne Of Diabolic Heretics”, omaggio assoluto agli anni che furono. Ritorno coi fiocchi quello dei Messiah: senza alcun vincolo compositivo, i quattro elvetici hanno sguinzagliato tutte le proprie capacità confezionando un prodotto compatto e ricco di spunti interessanti. Il Messiah è tornato… ed è svizzero.