7.5
- Band: METALLICA
- Durata: 01:17:29
- Disponibile dal: 18/11/2016
- Etichetta:
- Blackened Recordings
- Distributore: Universal
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Dire che un nuovo album dei Metallica rappresenta un evento ancora nel 2016 è persino riduttivo; amati incondizionatamente oppure odiati con quell’odio che caratterizza gli amori finiti, i Quattro Cavalieri hanno sicuramente fatto di tutto per esacerbare questa spaccatura almeno nell’ultimo quarto di secolo, tra album opinabili ed esperimenti al limite dell’imbarazzo (e parliamo chiaramente di “Lulù”). Ecco, fatte queste belle e scontate premesse, che cosa ci si può aspettare, o meglio, cos’è lecito desiderare da un lavoro dei Metallica al giorno d’oggi? Il ritorno al thrash primordiale? Un seguito del Black Album? Un onesto album che esprima la loro creatività senza troppi calcoli preventivi su vendite e pubblico? Probabilmente tutte queste cose, e “Harwired… To Self-Destruct” riesce a sorprenderci e a mettere sul piatto un perfetto equilibrio di tutte queste lecite speranze con capacità; riprendendo con equilibrio il discorso di un ruvido hard rock del periodo di “Load”, con concrete e abbondanti venature heavy dal loro passato più glorioso. Nessun miracolo, probabilmente, qualche difetto c’è eccome, e ve ne parleremo nel seguito, ma è una grande soddisfazione poter tornare a scuotere la testa soddisfatti durante l’ascolto di buona parte dell’album. Il poker in apertura è a dir poco da urlo: l’opener e quasi title track “Hardwired”, già disponibile online da diverse settimane, è una mazzata su denti d’annata, molto più vicina per velocità e linee vocali a “Master Of Puppets”, che non al suddetto Black Album; ci si avvicinano maggiormente gli altri due singoli “Atlas, Rise!”, con un bel piglio hard rock e un riff portante pulito come non si sentiva da tempo, e “Moth In Flame”, trascinante, cattiva al punto giusto, decisamente catchy. Nonostante quest’ultima sia forse il pezzo più potente e trascinante dell’album, i sei minuti di durata pesano un po’, e a dirla tutta si perde una certa immediatezza. Come da tradizione i Metallica riescono infatti raramente a scrivere pezzi spicci, e, mentre il primo disco procede con piacere e mette sugli scudi anche “Dream No More” – pezzo che ricorda nostalgicamente “The Thing That Should Not Be”, con persino un nitido ‘Madness, They Say!’ a chiudere il ritornello – ecco che passiamo al secondo disco. Sulla carta, da speculazioni e anticipazioni varie, il secondo CD pareva destinato ad essere una dilatazione drammatica ed inconsistente dell’album: sicuramente è meno interessante, ma non in maniera disarmante, anzi. Certo, settantasette minuti di durata sono un po’ troppi per queste dodici tracce, ed è in brani come “Am I Savage?” e “Murder One” che la lunghezza dei brani si fa eccessiva, anche se in entrambi i casi sono molto apprezzabili le costruzioni dei brani e l’egregio lavoro di Trujillo, finalmente in primo piano anche in studio. Ma il piatto della bilancia viene riequilibrato alla grande: in primis da “Confusion”, smaccato omaggio ai Diamond Head fin dalla marziale batteria iniziale, con un tocco melodico vicino ai tanto amati Mercyful Fate nel bridge, che lascia a bocca aperta e si presta ad ascolti in heavy rotation, mentre un certo gusto NWOBHM prosegue nella successiva “ManUNkind”, basata su un bel riff circolare. “Here Comes Revenge” apre citando spudoratamente “Leper Messiah”, prima di trasformarsi in un orecchiabilissimo midtempo con una delle più belle prestazioni vocali di James da anni; il Nostro, tornato davvero in grande spolvero, è in grado di alternarsi bene tra le cupe strofe e un graffiante ritornello retto da un duetto tra l’energica chitarra e, incredibilmente, un bel pattern di batteria di Lars. Ecco, ripetere che Lars, dal punto di vista esecutivo, è l’elemento debole della band sarebbe come sparare su un volontario tetraplegico della Croce Rossa, ma va riconosciuto che, coi suoi infiniti limiti (leggasi: conosco discretamente i quattro quarti e so fare le rullate) riesce a dare il massimo e a non appiattire i brani e il groove complessivo. “Spit Out The Bone”, brano di chiusura, vede guarda caso Lars farla da padrone al rullante, ma soprattutto il ricorso a tre riff al fulmicotone incastonati con sapienza, che ci ricordano, per una volta senza lacrime di pietà, chi ha inventato un modo di scrivere brani thrash: sette minuti che in questo caso volano, davvero coinvolgenti, e che riscuotono l’ascoltatore dopo i precedenti e più defilati pezzi. Complessivamente, va detto, non c’è un brano che non contenga almeno un ottimo riff, con buon equilibrio tra un hard rock di classe e del bel metallo pestato; e indovinate un po’? Kirk ha anche re-imparato a non usare il wah-wah ogni trenta secondi, e nei brevi e funzionali assoli regala anche lui sorrisi. E insomma, la sensazione generale è che i Metallica abbiano ritrovato la bussola e, dove ripropongono formule già sentite, ne siano perfettamente consapevoli e ammicchino all’ascoltatore divertiti. Bentornati, e incrociamo le dita per il futuro.