10.0
- Band: METALLICA
- Durata: 00:54:50
- Disponibile dal: 21/02/1986
- Etichetta:
- Elektra Records
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Se gli alieni un giorno sbarcassero sulla Terra e volessero capire per quale motivo milioni di persone passano il loro tempo imbottendosi i timpani di musica, uno dei primi album che gli metteremmo tra le mani, probabilmente, sarebbe proprio “Master Of Puppets”. Le note dei brani che compongono questo imprescindibile tassello di storia parlerebbero per noi, nessuno avrebbe il bisogno di spiegare i motivi per cui, un disco del genere, sia diventato di diritto uno degli album più rappresentativi di un genere musicale che non è “solo” il thrash metal, ma proprio l’heavy metal tutto. Mai come in questo caso il terzo disco di una band è risultato essere così tanto decisivo: dopo aver dato alla luce il ruvido e convincente debut “Kill’em All” e un autentico capolavoro quale “Ride The Lightning”, da sempre ritenuto da moltissimi fan il vero apice compositivo della band, i quattro californiani sono chiamati alla prova del nove. E di nuovo, mai come in questo caso la prova della maturità viene superata a pieni voti, meritandosi anche la lode e il bacio accademico. Non spetta a noi decidere cosa sia meglio tra “Ride…” e “Master…”: la verità è che si tratta oggettivamente di due autentici capolavori, due lavori imprescindibibli, due must have assoluti che dovrebbero essere presenti in qualsiasi collezione di cd/vinili/cassette di qualsiasi metallaro degno di questo nome e non. Fatto il doveroso cappello introduttivo, possiamo ora tentare di spiegare cosa è contenuto in questo disco sulla cui copertina campeggiano croci bianche sulle quali incombono i fili governati dalle maligne mani del Mastro Burattinaio. L’arpeggio iniziale di “Battery” ha il compito di introdurre gradualmente all’ascoltatore ciò che sta per accadere, facendolo immergere nel giro di un minuto in un’atmosfera calda, accompagnata dapprima da un semplice intro di chitarra classica e poi attraverso un momento più epico, che si andrà a schiantare deflagrando in uno dei riff (e relativa partenza) più taglienti, rabbiosi, storcicollo e tipicamente thrash metal della storia del genere. Con i primi due minuti di questo brano i Four Horsemen conquistano già l’attenzione dell’ascoltatore medio, che probabilmente, stranito ed esaltato da tanta furia adrenalinica, sarà istintivamente portato a vedere dove andrà a confluire cotanta potenza. Gli assoli che si susseguono sono un misto perfetto tra melodia e velocità, armonia e cafonaggine, ma ciò che è ancor più devastante è il bridge tra la fine dell’assolo e l’inizio della strofa: un cambio di tempo che ritornerà anche a fine brano e chiuso da un Lars Ulrich, seduto dietro alle pelli, letteralmente indemoniato e in un formidabile stato di grazia. Un pezzo assolutamente perfetto, che non vive un solo momento di calo di tensione per tutti i suoi cinque minuti. Esattamente quello che accade per gli otto minuti e trentotto secondi successivi: stiamo parlando ovviamente della title-track per antonomasia, che si apre con IL riff, che da solo si prende il compito di trascinare il primo minuto di canzone, quando ad irrompere sono le parole “End of passion play, crumbling away / I’m your source of self destruction” urlate da un rabbioso e polemico Hetfield, che per altri due minuti abbondanti conduce il treno dei Metallica fino al primo cambio di atmosfera: un solo sognante (ad opera dello stesso Hetfield) che risuonerà nei decenni a venire per le arene di tutto il mondo, cantato e urlato a squarciagola da milioni di fan sparsi per tutto il globo. Due giri dello stesso tema per far prendere confidenza al fruitore con il fatto che i Nostri con le chitarre letteralmente cantano, non hanno assolutamente il bisogno di ricorrere alle clean vocals per creare un refrain memorizzabile e in qualche modo canticchiabile; al termine di ciò, però, sta per accadere qualcosa di veramente epocale: le pelli di Lars Ulrich iniziano a produrre una ritmica cadenzata, dapprima in secondo piano e che gradualmente diventa protagonista crescendo assieme ad un riff pachidermico, cadenzato, pienissimo di groove e assolutamente basilare nella sua semplicità, ma di una potenza debordante. E quando Hetfield inizia ad urlare “Master, master / where’s the dream that I’ve been after?” ci immaginiamo il pugno serrato e scagliato verso il cielo a ritmo di musica di un plotone di esecuzione in attesa di scatenare tutta la propria rabbia nel frangente appena successivo: quello dell’assolo frenetico di Hammett, che termina con un altro cambio di tempo da mozzare il fiato. Una variazione di tema che, a sei minuti di distanza dall’inizio del brano, ci riporta di nuovo al punto di partenza, a QUEL riff iniziale, come se fino ad ora i Nostri avessero scherzato, come se volessero ricominciare da capo. C’è ancora il tempo per una strofa e un ritornello, prima che il brano si chiuda con la risata malefica del Master Of Puppets che chiude IL brano che diverrà un pezzo di storia della musica. Un arpeggio di basso molto effettato introduce “The Thing That Should Not Be”, canzone dall’indole classicamente heavy, blacksabbathiana sotto molti punti di vista e che, col senno di poi, aprirà le porte a sonorità à la “Enter Sandman”. Il pezzo, il cui testo è ispirato dal racconto di H.P. Lovecraft “La Maschera Di Innsmouth” e in cui i richiami al mito di Cthulhu sono molteplici, è costruito fondamentalmente su un riff basilare e su un mid tempo tanto cadenzato quanto incalzante. Questa è la traccia più sperimentale del disco, che fa un po’ il paio con “Leper Messiah”: durante questi due brani i Nostri tentano (e riescono) di esprimere potenza ed energia attraverso un riffing e una ritmica non più frenetici e dirompenti, come nei precedenti episodi, bensì mediante un’ossatura più controllata e massiccia. Con il senno di poi, “The Thing…” e “Leper…” rappresentano probabilmente i primissimi anticipi del cambio di sonorità che, successivamente, i Nostri attueranno con i risultati che tutti conosciamo e che non analizzeremo di certo in questo contesto. “Welcome Home (Sanitarium)” è un altro di quegli episodi entrato di diritto nella storia della nostra musica preferita e che difficilmente mancherà dalle scalette dei concerti dei Metallica. Come struttura il pezzo ricalca l’episodio riuscitissimo del precedente lavoro “Ride The Lightning”, quella “Fade To Black” che inizia appunto con un arpeggio e un cantato pulito e, in un crescendo energico, sfocia in una parte centrale molto più adrenalinica ed articolata, con vari cambio di tempo e di atmosfera legati tra di loro in maniera magistralmente fluida e dinamica. Liricamente i Metallica stavolta fanno un altro riferimento letterario, ovvero al libro “Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo” di Ken Kesey, poi trasposto nell’omonimo film che vede Jack Nicholson interpretare – magistralmente – Randle Patrick McMurphy, uno dei personaggi principali della vicenda. Sanitarium è, nella parte iniziale della canzone, il manicomio dove la libertà è un vero e proprio sogno: testi e musica viaggiano di pari passo e, gradatamente, l’intensità cresce e quel sogno rassegnato diviene rabbia feroce fino ad esplodere in un sentimento di ribellione verso un metodo profondamente ingiusto e inutilmente violento. Una traccia dal testo molto crudo e, purtroppo, veritiero, e che grazie al pathos e alla capacità interpretativa e compositiva della band, riesce a dare voce a un tema molto scomodo. Musicalmente la parte iniziale viene cantata in un pulito molto evocativo, il tappeto sonoro creato è quanto di più riuscito si potesse immaginare, un delay di chitarra acquoso e un delicato assolo riescono a creare un’atmosfera magicamente nostalgica e sognante. Gli assoli sono quasi impalpabili, irreali, ed entrano di diritto negli immaginari delle masse. Ma ancora una volta, è quando il tempo e l’atmosfera deflagrano definitivamente, verso la metà del terzo minuto, che i Metallica ingranano la cosiddetta marcia successiva, quella in più che effettivamente hanno: tre minuti di esaltazione totale, con aperture epiche e un finale che pare studiato apposta per suscitare applausi in sede live. “Disposable Heroes” è forse uno dei brani più sottovalutati dell’intero platter, oscurato probabilmente dalla brillantezza degli altri pezzi che letteralmente hanno scritto la storia di un genere musicale. A farla da padrone sul piano musicale sono riff di natura tipicamente thrash metal: urgentissimi, battenti, adrenalinici, conditi da continue varizioni di tempo al fulmicotone e cori da gridare a squarciagola. Ma un altro episodio di questo platter che è divenuto un vero e proprio classico nella storia della nostra musica preferita è anche probabilmente una delle più belle tracce strumentali che sia mai stata scritta: stiamo parlando ovviamente di “Orion”, scritto dal mai troppo celebrato e compianto bassista Cliff Burton, scomparso prematuramente e, lasciateci dire, anche ingiustamente, a causa di un tragico e fatale incidente stradale poco tempo dopo. In questo brano tutti i Quattro Cavalieri hanno la possibilità di ritagliarsi un proprio momento di gloria, senza che ciò vada mai a mettere in secondo piano il senso compiuto del pezzo. Uno dei difetti pricipali che troppo spesso ci è capitato di riscontrare in una strumentale è l’autocelebrazione dei singoli musicisti che mettono in risalto le loro qualità tecniche senza dare alla composizione una forma propria coesa e coerente, ascoltabile insomma. Il risultato finale è che l’ascoltatore medio sente il pezzo e si stupisce di quanto siano “smanettoni” gli interpreti, ma raramente prova reale piacere ad ascoltarlo. Be’, “Orion” è quanto di più lontano possa esserci da tutto ciò. Siamo infatti alle prese con un brano molto comunicativo, pregno di significato, introspettivo, malinconico, concepito in maniera armonica e impeccabile, che non stanca mai chi ascolta nonostante la sua durata importante, otto minuti e dodici secondi. Non si raggiungono mai le velocità o le sensazioni energiche dell’inizio del disco, se non verso la parte conclusiva in cui i quattro si riuniscono dopo essersi in qualche modo dati il cambio al timone, suonando letteralmente come un unico strumento. Il tutto è giocato sul lato emotivo, sul pathos e sull’espressività, sulla loro innata capacità di far tremare nel miglior modo possibile pelli e corde e far loro raccontare una storia che ogni singolo ascoltatore questa volta sarà libero di interpretare a proprio uso e consumo. Una canzone che ancora oggi, a trent’anni dalla sua uscita, riesce a sollevare i cosiddetti peli sulle braccia a chi sta tentando, invano, di mettere nero su bianco come suona questo disco, nonché una piccola parte delle migliaia di sensazioni che si provano sentendolo. Avrebbero potuto chiudere “Master Of Puppets” con “Orion”, i Metallica, e invece no, hanno deciso di chiudere con la stessa furia assassina del brano di apertura, con un brano come “Damage, Inc.”; che, come struttura, richiama “Battery”, quasi debba chiudere un cerchio e non lasciare nulla in sospeso. “Master Of Puppets” è tutto questo ma anche molto, moltissimo altro, e ogni singolo passaggio meriterebbe di essere analizzato ed approfondito, in quanto nulla è lasciato al caso. Di “Master Of Puppets” andrebbe fatta un’attenta e metodica esegesi, andrebbe studiato da cima a fondo, esattamente come si fa a scuola con le poesie importanti, con i poemi epici, con le tabelline, con l’analisi logica e grammaticale, con le capitali degli stati o con le date più importanti della storia. Già, perché il giorno 21 febbraio dell’anno 1986 la musica cambiò definitivamente grazie all’uscita di questo album, che celebrò in maniera totale e definitiva un gruppo che aveva già dato ampio sfoggio di qualità e capacità decisamente sopra la media, entrando di diritto a far parte dei mostri sacri della musica. Signore e signori, questo è “Master Of Puppets”, musica e testi dei Metallica: questa è Storia.