9.5
- Band: METALLICA
- Durata: 00:47:47
- Disponibile dal: 30/07/1984
- Etichetta:
- Megaforce Records
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Il 1983 è stato un anno fondamentale per tutto il movimento heavy metal, a causa di un impetuoso e ultra-violento debut album intitolato “Kill’Em All”, inciso da una giovanissima band trapiantata a San Francisco e chiamata Metallca. I Nostri hanno masticato, metabolizzato e proiettato alla velocità del suono una commistione caustica, ma incredibilmente matura, fatta di NWOBHM, rock’n’roll e hardcore-punk, meglio codificata come thrash metal. Questa inaudita violenza sonica ha espanso i limiti del rock sino ad allora conosciuti, generando un esercito agguerrito sparso in tutto il globo occidentale, che ha reso celebre e altrettanto temuto questo genere nel giro di tre anni. Consapevoli del proprio talento, i Metallica hanno acquisito rapidamente una notevole esperienza on stage, macinando una indiscutibile mole di concerti e conquistando progressivamente ed inesorabilmente una schiera di fan sempre più entusiasti e devoti. Giunto il momento di entrare in studio per coniare un nuovo lotto di inediti, i Four Horsemen si trasferiscono in Danimarca negli Sweet Silence Studios, guidati in cabina di regia dal produttore Flemming Rasmussen (già al lavoro su “Difficult To Cure” dei Rainbow di Ritchie Blackmore ed in seguito con i Blind Guardian), al quale spetta il compito di ottimizzare al meglio l’incredibile dose di energia espressa sul precedente lavoro. Dopo un febbricitante periodo trascorso in studio, il 30 luglio 1984 fa la sua comparsa nei negozi di dischi “Ride The Ligthning”, un album che assume la forma concreta di un miracolo vero e proprio inchiostrato sul pentagramma, in quanto riesce a bissare con disarmante semplicità la già ottima qualità dei pezzi presenti nell’esordio, ma soprattutto compie un’evoluzione sonora raramente conquistata da altri gruppi dello stesso genere. Presentato da una copertina tanto inquietante quanto magnetica, al suo interno troviamo otto composizioni cangianti, tirate a lucido da un songwriting incredibilmente maturo, ricco di affascinanti intuizioni melodiche, esaltate da una produzione professionale (distante anni dal sound garage forgiato pochi mesi prima su “Kill’Em All”). Questa profonda evoluzione tocca di conseguenza anche le tematiche trattate nelle lyrics, le quali assumono una fisionomia più drammatica e colta. Non a caso vengono citati un paio di autori di spicco della letteratura moderna come Ernest Hemingway e Howard Phillips Lovecraft, rispettivamente in “For Whom The Bell Tolls” e “The Call Of Ktulu”. Le novità prendono subito vita sin dal soffuso arpeggio chitarristico di “Fight Fire With Fire”, che dopo alcuni secondi sfocia in un eccitante assalto thrash all’arma bianca guidato dall’arrembante ma espressivo cantato del carismatico frontman James Hetfield. Sin dalle prima battute va rimarcato che il suo approccio vocale risulta meno istintivo ed isterico rispetto al passato, guadagnando punti in potenza e profondità. La genialità compositiva della band, però, traspare in pompa magna dalle note della title track (nella quale troviamo lo zampino di Dave Mustaine), architettata su un tumultuoso tour de force generato da una combinazione vincente strofa-bridge-ritornello, che affluisce in un affresco solista di gran gusto ad opera di un Kirk Hammett estremamente intenso ed ispirato nell’esecuzione delle sue partiture. “For Whom The Bell Tolls”, al contrario, smorza temporaneamente il ritmo anticipando di qualche anno la svolta decisiva intrapresa con il cosiddetto e perennemente discusso “Black Album”. Trattasi di un mid tempo tanto semplice quanto efficace, dettato dalle battute secche e quadrate di Lars Ulrich, colorato al tempo stesso dalla classe applicata alle quattro corde del mai troppo rimpianto e geniale Cliff Burton. “Fade To Black” inaugura una serie di semi-ballad che faranno la fortuna di una band che sceglie con astuzia di smarcarsi in largo anticipo sui tempi dai canoni tipici del genere, facendo emergere un latente approccio rock-oriented. Da essa brilla un palpabile mood malinconico ed oscuro, esaltato da una toccante performance vocale e da una serie di fraseggi chitarristici da antologia. L’anfetaminica “Trapped Under Ice” riporta il contagiri oltre il limite consentito senza sacrificare il gusto melodico delle vocals, mentre “Escape” spesso viene classificato come un episodio minore nella discografia della band; il brano offre invece un lampante esempio di come questi ragazzi siano in grado di destreggiarsi abilmente su lidi molto vicini all’hard rock venato di melodia. Il monumentale pathos espresso da “Creeping Death” ha pochi eguali nella storia della musica pesante, grazie al suo riff arcigno e durissimo che fa da ponte ad una magistrale interpretazione vocale di Hetfield, incastonata in un continuo e frastagliato saliscendi di note dettate dalle due chitarre. La conclusiva “The Call Of Ktulu” è un’elegante suite strumentale insaporita da un forte retrogusto progressivo, straordinaria testimonianza del travolgente eclettismo di questi ragazzi, consapevoli di aver innescato una rivoluzione culturale consacrata dal successivo “Master Of Puppets”. Un disco che a quasi trent’anni di distanza sa di miracolo.