7.5
- Band: MINISTRY
- Durata: 00:42:28
- Disponibile dal: 01/03/2024
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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Dopo circa un decennio da ‘pulito’, il paragone potrà apparire irriverente al buon zio Al, ma alla fine i Ministry sono come la droga: difficile farne a meno, se ci sei abituato, ma è sempre un terno al lotto sapere che varietà (o qualità) ti toccherà questa volta.
Fughiamo i dubbi: “Hopiumforthemasses” (ed ecco che torna la droga, per quanto tramite una classica citazione di Marx) è un buon disco, anzi un disco che sfiora l’eccellenza in termini di maturità e produzione, e non a caso presenta una delle formazioni più solide – in termini di caratura – che i Ministry possano vantare nella loro lunga carriera.
Parimenti, tenendo conto di quanto ascoltato su “AmeriKKKant” e “Moral Hygiene”, certi midtempo acidi e la sempre più consistente componente electro-dub non possono stupire più di tanto, e anzi confermano un certo desiderio di rinnovamento che ha sempre caratterizzato la band. Se poi guardiamo ai parallelismi tra la loro carriera e la recente storia americana, tutto sembra quasi già scritto: una trilogia di dischi con una certa omogeneità sonora, un crescendo di rabbia e disillusione verso la politica a stelle e strisce, che quasi profeticamente, al suo acme, coincide ogni volta con il potenziale ritorno dei repubblicani al Campidoglio.
Restando sulle certezze, c’è tutto quello a cui siamo abituati, specie in anni recenti: campionamenti, voci filtrate, violenza quasi aggrotech con spruzzi danzerecci (“Just Stop Oil”, “Ricky’s Hand”), un senso persistente di tensione, che spesso non richiede nemmeno ritmiche troppo violente (“B.D.E.”, oppure “New Religion”), momenti di apparente intimismo che sfociano in invettive sociopolitiche rabbiose (“It’s Not Pretty”).
Non mancano ovviamente brani che fanno presagire devastazione sotto palco: come da tradizione, l’ennesimo capitolo della saga “TV Song” è una mazzata sui denti notevole, con il suo uptempo costante, ma già prima si può godere di riffoni al catrame con il singolo “Goddamn White Trash”. Interessante qui l’ospitata di Pepper Keenan, che pare quasi voler sottolineare come non tutti gli abitanti di Dixieland siano dei reazionari con il mullet e la spiga in bocca. In tema di guest è ormai scontata la visita in studio del vecchio amico Jello Biafra, che impreziosisce con la sua voce sguaiata la pachidermica e marziale “Aryan Embarrassment”; meno prevedibile, ma molto godibile, il duetto con Eugene Hütz (dei Gogol Bordello, per i più distratti) su “Cult Of Suffering”, impreziosito da tinte caucasiche, pop e chi più ne ha più ne metta.
Eppure, nonostante testi espliciti, dotati dell’intelligenza e dell’acume a cui Jourgensen ci ha sempre abituati, momenti assolutamente aggressivi – pur in declinazioni variegate – e l’esplicito e apprezzabile desiderio di donare elementi di novità, resta strisciante la sensazione di un disco che non riesce a pungere fino in fondo, forse solo per la disomogeneità tra i brani.
Certo, non parliamo di un passo falso, come da voto, ma – fosse anche solo per motivi di devozione – il guizzo per entrare tra i dischi dell’anno ci sembra mancare; sperando ovviamente di essere contraddetti dalla resa dei brani in sede live, che aspettiamo come bambini a Natale, ovviamente.