9.0
- Band: MINISTRY
- Durata: 00:50:03
- Disponibile dal: 14/11/1989
- Etichetta:
- Sire Records
- Distributore: Warner Bros
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Si scrive Ministry, si legge Industrial Metal. Sono rare le identificazioni così iconiche tra un genere e una band, ma nel caso della creatura di Al Jourgensen (e, almeno al tempo, Paul Barker) non ci sono dubbi. Dopo un paio di album di synth-pop più o meno elaborato, e il precedente “The Land Of Rape And Honey”, dove brani come “Stigmata” e “Deity” indicavano già la Via senza remore (ma con ancora qualche indecisione), con questo loro quarto album i Ministry creano ufficialmente un nuovo stile: debitore delle sperimentazioni e dei rumorismi dei Throbbing Gristle, sicuramente ancora affascinato dalle band elettroniche che Al ascoltava (e a cui si ispirava) in precedenza, ma soprattutto in grado di sovrapporre chitarre, ritmiche e campionamenti metal al 100%. E non solo: nel caso di “The Mind Is A Terrible Thing To Taste”, abbiamo anche una perfetta rappresentazione di quanto il titolo pare promettere: una discesa negli inferi di una testa malata, sofferente, colma di genio e di fantasmi difficili da esorcizzare, che è chiaramente quella di Jourgensen, al tempo – e per anni a seguire – gonfio di eroina e alcool a livelli magistrali. Una personalità fortissima e fragile assieme, in grado di agglomerare idee fantastiche e musicisti straordinari, ma anche di passare più tempo da sballato che da sobrio; ma l’importante è che sia sopravvissuto, ci abbia donato capolavori come questo e sia ancora oggi alive and kicking – l’espressione inglese è sicuramente azzeccata, per il personaggio. Bastano nove brani, qui, per entrare con un calcio ben assestato nella Storia, e forse sarebbe anzi sufficiente la chitarra campionata (ebbene sì!) e simile a un trapano dell’iniziale “Thieves”: uno dei pezzi più noti e selvaggi del combo di Chicago, dove sul riff portante si innestano la violenza di una batteria essenziale e furiosa, la voce lacerata di Al e i campionamenti del sergente Hartman tratti da “Full Metal Jacket”, che ben esprimono la passione del frontman per Kubrick e la sua crescente attitudine antimilitarista. “Burning Inside” si muove su coordinate simili, ma aumenta la ferocia trasudata da ogni nota ed è la perfetta colonna sonora delle corse in auto di Alex in “Arancia Meccanica”: inarrestabile, circolare, potenzialmente infinita e non a caso coverizzata da decine di band negli anni – in primis i Fear Factory. “Never Believe” è puro tribalismo retto dalla batteria incalzante e da un riff irrefrenabile, che anticipa le linee vocali accattivanti che troveranno particolarmente posto sul successivo “Psalm 69”; qui, come nella successiva “Cannibal Song”, un pezzo cupo e retto dal basso ossessivo, troviamo all’opera dietro il microfono Chris Connelly. Al tempo il folle scozzese era, in pratica, l’alter ego vocale di Jourgensen, che sconfesserà il ruolo dello stesso negli anni a venire, accusandolo di essere stato una zecca a caccia di visibilità. Ma certo il suo cantato allucinato e tossico risulta efficacissimo per favorire una discesa in gorghi malati; non a caso è presente in questa quarta traccia un esplicito sample dal film “Hellraiser II: The Mind Is A Labyrinth”, che ben esprime lo stato mentale della band al tempo e quanto si proponeva di suscitare negli ascoltatori. Dopo questo rallentamento quasi new wave, “Breathe” si pone come pezzo gemello dell’opener: ancora un sample cinematografico (dal poco noto “Grido Di Libertà”), un drumming marziale e senza variazioni, la voce filtrata e glaciale e piccoli ma preziosi inserti di tastiere ne fanno un classico che viene ancora occasionalmente ripescato dal vivo, ottimo per chiamare i fan al sabba. Ne è una prova perfetta il successivo live album “In Case You Didn’t Feel Like Showing Up”, quasi interamente basato su questo lavoro, che vi consigliamo di recuperare in dvd; un perfetto e naturale compendio visivo che offre un’idea perfetta (e malata) dell’immaginario dei Ministry e passaggi trascinanti, in cui uno dei punti di forza è sicuramente il lavoro dei due batteristi; se dal vivo l’ospite di riguardo è l’ex PIL Martin Atkins, che sembra svolgere il ruolo del folletto, in studio William Rieflin si ritaglia un ruolo fondamentale. Tornando ad analizzare i brani, ascoltate come nella successiva “So What”, con pochissime variazioni, il talentuoso drummer riesca a costruire un brano degno di un rituale, perfettamente doppiato dal cantato fatto di cori, risate campionate (da “Scarface”) e strofe sgraziate che mandano brividi lungo la schiena. “Test” è un improbabile crossover danzereccio, come se i Beastie Boys di quegli stessi anni fossero immersi nell’acido (lisergico, chiaramente) e prestati alla causa di questo combo di drogati. I brani finali sono episodi un po’ a sé stanti, probabilmente attribuibili alla componente intellettuale della band, ossia l’occhialuto Barker e il già citato Rieflin; leggende narrano che le due parti in cui erano scindibili i Ministry in quegli anni d’oro lavorassero addirittura in studio in orari separati, e che anzi Al Jourgensen tendesse a cancellare o sovrascrivere senza pietà quanto fatto dai due ‘avversari’ interni. Certo è che i rallentamenti di “Faith Collapsing”, sotto forma di ritmiche e campionamenti ispirati alle distopie della miglior sci-fi (ai lettori il piacere della scoperta), e le derive world-ambient di “Dream Song” riescono ad offrire un ulteriore salto in avanti e varietà a un album solido, seminale e semplicemente unico.