6.5
- Band: MONOLITHE
- Durata: 00:57:00
- Disponibile dal: 18/10/2013
- Etichetta:
- Debemur Morti
- Distributore: Masterpiece
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Stando alla passate dichiarazioni di Sylvain Bégot, questo quarto capitolo della saga dei Monolithe dovrebbe decretare la fine della band. Infatti il polistrumentista transalpino ha sempre detto che ogni album della band faceva parte di una narrazione unica e che, quando questo ciclo sarebbe terminato, nemmeno la band avrebbe avuto più ragione di esistere. “IV” è appunto l’approdo finale della storia, l’ultima pagina del libro. Dopo l’uscita del terzo capitolo – estremamente più progressivo e sperimentale dei due predecessori – c’era molta curiosità intorno a “IV”; la band ha preferito andare sul sicuro e puntare su di un funeral doom certamente molto vario ed inclusivo, ma anche lontano anni luce dagli azzardi del precedente lavoro. Forti di una formazione stabile e della presenza della splendida Emma Elvaston degli Evolvent alle voci femminili (che poi si risolveranno in qualche sussurro sparso qua e là), i Monolithe si dimostrano una band alla quale non piace ripetersi. Per la prima volta in carriera, lungo i 57 minuti di durata dell’unico brano presente, i Nostri non danno l’idea di voler tenere legati tra di loro i vari momenti in cui la traccia è divisa: se in passato un fil rouge è sempre stato riscontrabile (un riff, un determinato pattern ritmico), stavolta non è così, o perlomeno lo è solo in parte. La prima metà dell’album verte su di un funeral melodico e raffinato, sulla falsariga di quanto fatto su “II”, guidato da Bégot con estrema maestria e cesellato dalle tastiere di Sébastien Latour, molto meno invadenti rispetto al passato. Alcuni passaggi sono piuttosto estremi, ma mai parossistici, gran parte della proposta è strumentale; Richard Loudin dietro al microfono riesce a ritagliarsi spazi interessanti ma anche piuttosto angusti, così come la Elvaston, che come già anticipato si limita a qualche gorgheggio etereo. Nella seconda parte della traccia si sovrappongono numerose componenti, da quella prog a quella folk, tutte di discreta fattura ma che avrebbero potuto essere meglio trattare se slegate dal contesto di brano-monstre a cui i Monolithe ci hanno abituato. Insomma, è il concetto stesso dietro alla band ad essere messo in discussione: perché insistere su una struttura a larghissimo respiro e di durata sconfinata se poi non si riescono a connettere tutte le componenti del suono? Probabile che Bégot e soci siano rimasti schiavi di un sistema di lavoro che stavolta si è adattato male ad un songwriting che avrebbe richiesto una divisione in brani di matrice più canonica. Rimane il fatto che i francesi sanno scrivere e che la loro musica, sebbene stremante, sia comunque dotata di fascino e classe e che quindi rimane consigliata agli extreme doomster più aperti ad influenze esterne.