9.0
- Band: MONSTROSITY
- Durata: 00:40:14
- Disponibile dal: 01/08/1996
- Etichetta:
- Conquest Music Group
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Parlare dei Monstrosity significa necessariamente confrontarsi con una delle realtà più audaci e sottovalutate dello scenario death metal a stelle e strisce. D’altronde, quando si tratta di elencare album e gruppi chiave del filone in oggetto, la cui nascita può essere fatta risalire alle improbe gesta di Death e Possessed, i nomi che saltano fuori sono bene o male sempre gli stessi: i Cannibal Corpse di “Tomb of the Mutilated” e “The Bleeding”, i Deicide del disco omonimo e “Legion”, i Morbid Angel dei primi quattro full-length, gli Obituary di “Slowly We Rot” e “Cause of Death”… e la band di Lee Harrison? Ingiustamente confinata nelle retrovie, nonostante una produzione dalla qualità media elevatissima (impreziosita da almeno un paio di capolavori) e per nulla inferiore a quella dei suddetti colleghi. Certo, i cambi di lineup – una costante fin dal 1990 – non hanno mai garantito stabilità alla carriera dei ragazzi floridiani, così come le lunghe pause tra un’uscita e l’altra, ma è pur vero che Immolation, Incantation e Vital Remains, musicisti dal trascorso tutto sommato simile, in tempi non sospetti hanno cominciato a raccogliere i frutti dei loro folgoranti esordi, mentre i Nostri sono sempre rimasti un nome per pochi, ignorati e mai compresi fino in fondo dal grande pubblico. Oggi, a vent’anni esatti dalla sua pubblicazione, arriviamo a parlarvi di “Millennium”, opera che più di ogni altra testimonia la classe e l’infinito talento della Mostruosità di Tampa, ancora oggi imbattuta per la sua capacità di coniugare potenza e raffinatezza, tecnica e brutalità, in un contesto che si nutre tanto di orrori quotidiani quanto di visioni oniriche, come peraltro testimoniato dalle liriche e dal surreale artwork di copertina. Immesso sul mercato dall’ormai defunta Conquest Music Group (siamo nell’estate 1996), il disco eleva alla massima potenza tutti quegli elementi cari al debut album “Imperial Doom”, riassumibili in un guitar work tagliente e spigoloso, in una sezione ritmica dall’alto coefficiente di fantasia e nella capacità di comporre brani sì complessi e articolati, ma sempre perfettamente intelligibili, nel pieno rispetto della tradizione death metal di quegli anni. Un assalto imprevedibile, feroce e dinamico, durante il quale è praticamente impossibile tenere il conto degli avvitamenti e dei cambi di tempo sciorinati dal quartetto, mai così metodico e in comunione d’intenti con lo scenario thrash metal di Sadus e Dark Angel. Dal punto di vista strumentale e compositivo, “Millennium” rasenta insomma la perfezione: i pattern di batteria di Harrison sono tra i più ficcanti e personali dell’epoca, equamente distribuiti fra un uso terremotante della doppia cassa, un avvolgente lavoro di piatti e tremende piogge di blast beat; il basso di Kerry Conlon – per quanto non possa vantare la stessa incisività del cinque corde di Alex Webster e Steve DiGiorgio – suona fresco e vivace, mentre Jason Morgan alla chitarra si rivela fin dalle prime battute una miniera inesauribile di riff ingegnosi e peculiari, inframezzati per tutto il corso del platter da assoli di rara eleganza e passionalità. Sugli scudi anche il giovane George ‘Corpsegrinder’ Fisher, qui alle prese con la performance più varia e lacerante della sua carriera di urlatore, degno corollario di una proposta tanto aggressiva e velenosa. Dall’intramontabile opener “Fatal Millennium”, il cui riffing arzigogolato fa ancora oggi scuola, passando per l’apocalittico midtempo di “Fragments of Resolution” e le metriche barbare di “Manipulation Strain”, fino a giungere all’intensissima “Seize of Change”, “Millennium” non presenta un solo passaggio a vuoto, una parentesi che non meriti di essere ascritta all’Olimpo del genere e del metal estremo tout court. Uno dei bagliori più accecanti mai balenati nei cieli tersi della Florida, fondamentale per comprendere ciò che tutti noi oggi chiamiamo techno-death.