10.0
- Band: MORBID ANGEL
- Durata: 00:39:31
- Disponibile dal: 05/07/1991
- Etichetta:
- Earache
- Distributore: Self
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Avete presente la geometria? Ve la insegnano a scuola per darvi dimestichezza con le varie forme, e così avete imparato che ognuna di loro ha una superficie che la definisce, racchiudendo il suo volume e presentandola così ai vostri occhi. Esiste una sostanziale analogia tra questo concetto, perfetto ed ideale, e ogni scena musicale, tanto che anche il death metal si propone come un volume d’informazioni, funestissime, definito da un inviluppo esterno dotato di molteplici facce: “Blessed Are The Sick”, dei Morbid Angel, è sicuramente una di queste, uno dei manifesti di un’intera scena all’esplosione della sua popolarità. Stiamo parlando di anni in cui suonare in una death metal band non era solo una questione di genere musicale, ma una faccenda molto più personale, poiché si trattava di codificare nuove vie espressive per un tipo di musica, l’heavy metal, che si è sempre proposta al pubblico in termini di grande impatto: era, in definitiva, un’epoca in cui ogni death metal band cercava di esprimere sé stessa attraverso i mezzi che lei stessa avrebbe creato, cosa che rendeva ogni gruppo diverso, riconoscibile e, soprattutto, accompagnato da quelle spinte evolutive che si sarebbero manifestate in un futuro prossimo. I Morbid Angel non hanno certo fatto eccezione e, anzi, sono stati tra coloro che hanno guidato e ispirato l’intero panorama: dopo anni di gavetta, debuttano nel 1989 grazie alla Earache, presentando una formazione rinnovata grazie agli innesti, dai Terrorizer, di Dave Vincent (voce e basso) e Pete Sandoval (batteria), mossa rivelatasi fondamentale per il loro songwriting in quanto conferisce l’approccio ritmico del grindcore ad una proposta musicale in precedenza maggiormente connessa all’heavy classico: potete valutare, voi stessi, la veridicità dell’asserto confrontando buona parte delle canzoni di “Abominations Of Desolation” (demo del 1986) con le stesse su “Altars Of Madness”, in cui vengono trasfigurate dai blastbeat di Pete Sandoval, ancora oggi un discriminante enorme del loro sound. “Blessed Are The Sick” è un album in cui vengono mantenute invariate tali caratteristiche di assalto, per poi arrichirle di nuove tinte grazie al personale sviluppo delle idee unito ad una più profonda consapevolezza dei propri mezzi: il quadro che ne risulta è sconcertante e multiforme, per l’epoca, al livello di soluzioni proposte, visto che nel corpo di una stessa canzone, come “Day Of Suffering”, possono trovarsi fuse insieme caratteristiche antagoniste, tipo rallentamenti e accelerazioni, col risultato di un album dalla spiccata carnalità, giocato su chiaroscuri quasi caravaggeschi e segnato a fondo dai soli impressionisti di Trey Azagthoth; non mancano episodi strumentali, come “Doomsday Celebration” e “Desolate Ways”, che spezzano il flusso musicale, lasciandoci a contemplare un desolato senso di spiritualità e raccoglimento. È possibile individuare delle tendenze macroscopiche all’interno dell’album: la compenetrazione tra sfuriate e rallentamenti si riflette anche al livello di tracklist, tanto che da una parte abbiamo pezzi come “Brainstorm”, “Thy Kingdom Come” e “Unholy Blasphemies”, che traducono l’urgenza ritmica del grind in codici death metal replicati -in seguito- ad ogni latitudine, mentre dall’altra troviamo pezzi come “Fall From Grace” e “Blessed Are The Sick”, che mostrano al mondo come il death metal possa essere efficace anche fluendo viscosamente; addirittura, durante l’ascolto della title-track, l’efficacia del songwriting diventa seduzione, plasmata dalle più viziose e distorte accezioni del concetto di sensualità: Dave Vincent ci rapisce e ci tenta, ci invita e ci provoca, e noi lo seguiamo fino a dissolverci nelle spire di una canzone che ci corrompe, perché non vuole uscire più dalla nostra testa. L’ultima parte dell’album fa da contrappeso alle altre, essendo costituita da pezzi scritti nel periodo precedente “Altars Of Madness” e, quindi, più compatibili con il metal degli esordi: “Abominations” e “The Ancient Ones”, comunque, subiscono lo stesso bagno di vizio e decadenza affinché possano essere parte integrante, e viva, di questa stupenda creatura proveniente da inferni più antichi del cristianesimo, descritti nei loro testi a base di mitologia sumera. L’album si chiude con la strumentale “In Remembrance”, che ci accompagna fuori dalla dimensione ignea dell’intero disco esattamente come l’ultimo sguardo di un viaggio segue un panorama divenuto ormai famigliare.